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Dott. Ferdinando Schiavo

Archivio Categoria: Storie Cliniche

Sembrava mobbing. Quando le demenze arrivano in età lavorativa

Pubblicato su 16 Luglio 2019 di Ferdinando Schiavo

Still Alice (2014) Alice Howland è una donna alla soglia dei 50 anni, orgogliosa degli obiettivi raggiunti. È un'affermata linguista e insegna alla Columbia University, ha una solida famiglia composta dal marito chimico e da tre figli, Anna, Tom e Lydia, tutti e tre realizzati. Ma improvvisamente la sua vita cambia, quando le è diagnosticata una forma presenile di Alzheimer. Tutte le sue certezze crollano, diventa una donna fragile e indifesa, anche agli occhi della famiglia che l'ha sempre vista come un pilastro.

Bruno lo avevo conosciuto negli anni ’80 perché era stato ricoverato in neurologia in seguito ad un potente attacco di emicrania con aura, il primo della sua vita di sedicenne. Aveva perso l’uso della parola per almeno un’ora e un po’ della forza e della sensibilità al braccio destro. Tutto era cominciato poco prima con un abbaglio di sole in una giornata che peraltro era inesorabilmente grigia: a destra del suo campo visivo erano sorte delle piccole sfere molto illuminate che si erano andate via via ingrandendo. La professoressa di italiano si era accorta che qualcosa non stava andando bene, solitamente Bruno era attento alle sue lezioni: ora appariva pallido, svagato e con un’espressione preoccupata.
– Bruno, stai bene?
– mmmh…mmmhhh

Ci fu la corsa all’ospedale e comunque tutto si esaurì in poco tempo, anche il mal di testa che nel frattempo aveva fatto la sua comparsa. C’era solamente la “TAC” all’epoca ed era risultata negativa, pure al controllo del giorno dopo; e così anche la SPECT, eseguita tuttavia solo a distanza di tre giorni. E c’era una storia familiare di emicrania con e senza aura, e questo dato convinse tutti a non procedere con esami invasivi come un’angiografia cerebrale.
Negli anni successivi Bruno era tornato a farsi vedere, sempre accompagnato dal suo attentissimo papà, per qualche altro raro episodio di Emicrania con aura per i quali avevamo scelto di non dare una terapia preventiva ma solo buoni consigli da seguire.
Mi sono preso cura professionalmente nel tempo di altri membri della sua famiglia mentre Bruno diventava architetto e stava sempre meglio, si era sposato, aveva avuto due splendide bambine, aveva trovato lavoro in un comune rivierasco vicino casa che d’estate si affollava di bagnanti. Era diventato l’architetto del verde ed in effetti doveva aver dato un ottimo contributo davvero perché quel posto era divenuto negli ultimi anni ambìto dai turisti anche sotto questo aspetto.
Ma nel 2018, quasi un anno fa, Bruno è tornato a farsi vedere perché aveva “problemi di lavoro con i colleghi”. Il suo racconto procedeva sciolto e senza lasciare apparenti miei dubbi (era un mobbing, mi sono detto!). Insomma, era stato estromesso da quel lavoro di programmazione e cura del verde pubblico ed avviato ad un lavoro di ufficio per lui senza senso e senza, soprattutto, possibilità creative.
La moglie non commentava. La sua presenza quel giorno si dimostrò comunque utile, anzi decisiva, quando in risposta alle mie insistenze da sgualcito tenente Colombo disse “si, Bruno, da qualche mese sei disordinato in casa, tu che eri così preciso. Ho trovato un paio di tue scarpe dentro l’armadio dei vestiti…”.
È bastato un semplice test breve, anzi due, il “Mini Mental” (MMSE) e il test dell’orologio: ho cominciato proprio con quest’ultimo e ci ha lasciato a bocca aperta, in un’atmosfera di sorpresa mista a dispiacere – e immagino che quello della moglie fosse più che un dispiacere.

Test_dellorologio   mini mental mente

Al “Mini Mental” la prova della copia dei due pentagoni era al limite della normalità ma aveva richiesto più tempo del previsto (era pur un architetto!) e qualche test su altri versanti della nostra complessa cognitività aveva denotato incertezze al limite dell’errore.
Con un uomo di poco più di 50 anni in queste condizioni bisognava andare a fondo, in qualche modo giustificando il comportamento dei suoi colleghi: che ne potevano sapere di prassia costruttiva, di progettualità frontale, di gnosia e di alterazioni visuo-spaziali!
Gli esami umorali ad hoc e la RM dell’encefalo non rivelarono sorprese, ma la valutazione neurocognitiva estensiva ci confermò ampiamente il sospetto clinico di una probabile Atrofia Corticale Posteriore (PCA nell’acronimo anglosassone), una di quelle modalità con cui una patologia dementigena di tipo alzheimeriano (ma anche legata ad altre patologie) può esordire risparmiando, almeno inizialmente, la memoria.
Margherita è un nome adatto ad una insegnante di scuola materna. Due anni fa era venuta da sola (e questo non aiuta, quasi sempre, nel dirimere la matassa in casi complessi), raccontando di colleghe di lavoro incavolate con lei e senza alcun motivo apparente.
La raccolta della storia procedeva sui binari del racconto dell’incomprensione reciproca tra colleghe, anche se negli anni precedenti erano andate sempre d’accordo. Anzi, quando tre anni prima Margherita si era separata, erano state molto cortesi e protettive con lei. Che strano mobbing!
Poi Margherita aggiunse: “forse qualche errore nella stesura dei programmi, maledetta burocrazia!”
“Dai, i test brevi glieli faccio” mi sono detto.
Una catastrofe, era peggio di Bruno! E sempre su quel versante progettuale legato al “capire lo spazio”. Come poter parlare con un suo familiare? Unico aggancio che avevo (non è certamente carino dire a una donna di 55 anni “torni accompagnata da un familiare adulto”!): il suo medico. All’inizio della visita mi ero meravigliato che Gioacchino avesse consigliato me per una valutazione per problemi di mobbing, sa che non tratto la “piccola psichiatria” convinto che altri professionisti la sappiano gestire responsabilmente e in maniera più consona. Ma aveva visto giusto lui!
Solito iter e stessa diagnosi.
Negli ultimi anni sono stato colpito da altre sorprese del genere. Nel corso della raccolta della storia clinica e di vita di una persona adulta ho visto emergere in itinere qualche mio silenzioso e malevolo pregiudizio (“questo mena il can per l’aia”; “mi sa che si sta inventando tutto”; “non ha mai lavorato in vita sua e pontifica sui suoi colleghi che, a suo dire, non valgono nulla e gli tarpano pure le ali”…) che poi è risultato sconfitto da una realtà di malattia non certo benevola.
Un’altra giovane architetta (non sarà che la PCA colpisca più architetti che altre professioni???) cinque anni fa era venuta accompagnata dagli anziani genitori. Si era accomodata in studio lasciandoli in sala d’aspetto. Pensavo che volesse dirmi “l’indicibile” su uno dei due, come avviene molte volte in questa professione di neurologo dei vecchi per una mia scelta che comunico preventivamente a colei (quasi sempre prendono gli appuntamenti le donne!) che sta chiedendo una valutazione per un padre, una madre, un fratello, una sorella: ”se pensate di dovermi raccontare particolari che possono ferire il vostro congiunto o farlo irrimediabilmente arrabbiare, inviatemi prima della data scelta una mail dettagliata, oppure entrate poco prima di lui\lei oppure, ancora meglio, prendete un appuntamento di mezz’ora e venite da soli qualche giorno prima a parlarne!”.
No. Quell’appuntamento era per lei per una vicenda simile a quella di Bruno. Stessi miei pregiudizi (“mobbing!” dichiarava il mio sotterraneo dell’anima), e purtroppo stesso finale di partita.
Quando una di queste malattie legate al mondo delle demenze, forse della stessa natura per i tre casi raccontati qui, colpisce una persona ancora attiva e ben inserita nel mondo del lavoro, possono sorgere incomprensioni con i colleghi prima ancora che con i familiari.
Nei tre casi che ho scelto di raccontarvi, inoltre, era assente la coscienza di malattia, un aspetto per nulla secondario nel campo delle demenze, a volte poco considerato dai colleghi malgrado il suo carico di pericolosità per sé e per gli altri in quanto possa esporre la persona malata a vari rischi tra cui gli incidenti sul lavoro o della strada, a una mancata diagnosi (“sto bene io! Vacci tu dal neurologo”), a truffe, all’assenza di controllo e accudimento da parte dei familiari (“non ne ho bisogno!”).
La mia esperienza è di segno contrario a ciò che è raccontato in “Perdersi” da Lisa Genova (edizioni Piemme) -da cui il bel film Still Alice- (qui) e a quanto è riportato in una recente ricerca australiana che ha sondato il legame tra demenza e mondo del lavoro.

colombo

Qui, l’insorgere della malattia è stato descritto dagli intervistati come una lenta transizione che all’inizio non è stata notata dai colleghi. I cambiamenti prima non erano visibili agli altri e riguardavano principalmente il personale “non ricordarsi qualcosa”, l’essere più disorganizzato, compiere più errori nel lavoro e lavorare più lentamente. Gli intervistati hanno raccontato che con il tempo le loro prestazioni sul lavoro continuavano a peggiorare e solo allora anche i colleghi hanno iniziato a rendersi conto che qualcosa non andava… (Evans, D. An exploration of the impact of younger-onset dementia on employment. Dementia, The International journal of social research and practice, published online first 8 September 2016, doi:1471301216668661).
La demenza che colpisce una persona ancora in età lavorativa è un aspetto del mondo delle demenze su cui è necessario riflettere.

Pubblicato in Storie Cliniche |

Moderata acatisia con parkinsonismo ipocinetico

Pubblicato su 5 Dicembre 2017 di Ferdinando Schiavo

Pubblicato in Storie Cliniche |

Storie di corpi… di Lewy. Le uova di Colombo, ma quell’altro… Sincopi e nuvole

Pubblicato su 24 Ottobre 2017 di Ferdinando Schiavo

Storie di corpi… di Lewy. Le uova di Colombo, ma quell’altro… Sincopi e nuvole

Ancora una storia di demenza a corpi di Lewy, la terza.

01 le uova di colomboRenato V. era un uomo che nel 2012 aveva 79 anni biologicamente ben portati, anche troppo, con quella schiena dritta e lo sguardo perennemente arcigno, sospettoso e indagatore en pendant con dei baffoni intimidatori ancora naturalmente neri. Una specie di Lee Van Cleef del Friuli!

Nessuna malattia di rilievo in anamnesi. Non seguiva nessuna terapia.

Dal 2010 aveva cominciato a presentare qualche “caduta” (il significato delle virgolette si capirà dopo). La moglie e gli altri familiari non avevano saputo fornire dettagli preziosi su dinamiche, cause e fattori favorenti, ma nel 2012 si appurò che si trattava di episodi di sicura perdita di coscienza di breve durata (verosimilmente delle sincopi post-prandiali) che divennero frequenti, anche fino a circa 5 al giorno, accompagnati dalla comparsa di iniziali disturbi del livello di attenzione a decorso fluttuante ed un certo rallentamento nel cammino e nei movimenti.

Dopo l’ennesimo “svenimento” (il nome popolare delle sincopi), batté la testa e finalmente poté uscire dal limbo di incertezza che relega spesso i pazienti anziani quando perdono i sensi per pochi secondi, tra attese di accertamenti a volte inutili come l’elettroencefalogramma (EEG), la TC dell’encefalo e l’ECG standard.

Fu così che venne ricoverato in un reparto di neurologia e sottoposto ad una nuova TC dell’encefalo, esami del sangue, ECG, ECO-Doppler TSA, tutti nei limiti della norma. Dimissione con aspirina (!?) in attesa di essere valutato presso l’ambulatorio dedicato ai disturbi cognitivi dello stesso reparto.

Lì ho rivisto la storia clinica di Renato V. Ho dovuto farlo.

– Dottore, sono stata costretta a far venire mio cognato perché ogni volta che si alza sviene.

E qui si scopre il primo uovo di Colombo, quell’altro, un’importante differenza di pressione arteriosa tra Renato V. in posizione supina e poi, in qualche modo aiutato e protetto, in piedi (ortostatica): pallore impressionante e una drastica riduzione della pressione arteriosa (PA) massima e minima.

PA in posizione supina 150\80 e 80\40 in ortostatismo per tre minuti (sempre sostenuto…), con modesta reazione tachicardica di compenso (il cuore può reagire o meno all’ipotensione aumentando la frequenza dei battiti), un dato che giustificava pienamente e senza ombra di dubbio gli episodi sincopali posturali e soprattutto dopo pranzo (pancia piena, cervello vuoto…).

Per il resto, modesti segni di deterioramento cognitivo globale (MMSE 23\30) ma con perdita di punti “pesanti” fra cui la copia dei pentagoni, un test dell’orologio molto compromesso (vedi immagine), un lieve e diffuso rallentamento dei movimenti volontari e automatici nel cammino e nei gesti, quella che in gergo medico chiamiamo ipo-bradicinesia globale senza tremori e che induce alla diagnosi di parkinsonismo, di grado lieve in questo caso.

02 le uova di colomboPer ulteriori informazioni leggi le osservazioni sui test cognitivi brevi in www.perlungavita.it 2016 il mio articolo Cinema e demenze. L’arte e la cura tra falsi miti, luoghi comuni ed errori)

Gli accertamenti secondo le realtà locali e le priorità.

Il paziente fu inviato a valutazione cardiologica ad hoc presso un piccolo ospedale della provincia dove un collega cardiologo non disdegnava di eseguire nello spazio di poche settimane di attesa una registrazione dell’elettrocardiogramma di 24 ore (ECG-Holter) e un Tilt-Test, esame che serve a registrare senza ombre di dubbio le variazioni della PA e della frequenza cardiaca a un paziente supino, su un lettino a cui è saldamente legato, mentre passivamente lo si sposta dalla posizione supina a quella “in piedi”.

ECG-Holter per un03 le uova di colombo verso e Tilt-Test per un altro documentarono quanto si era visto al banalissimo, di facilissima esecuzione e poco utilizzato controllo della PA e della frequenza cardiaca, mediante un normale sfigmomanometro in qualsiasi ambulatorio o abitazione!

Inefficace risultò una terapia con Tri-effortil; si mostrò attiva nel contenere sincopi e pre-sincopi quella con pindololo (Visken).

 Ma le sorprese non erano finite: il secondo uovo di Colombo.

Al controllo ambulatoriale, due settimane dopo, nel sospetto e al cospetto di una diagnosi complessa, riuscii ad allontanare finalmente il paziente dall’ambulatorio affidandolo al fratello. Liberata l’anziana moglie del peso del controllo incessante e poliziesco del marito, fu possibile scoprire attraverso poche e mirate domande che da circa un anno erano presenti allucinazioni complesse, vere e proprie orchestre che venivano sotto casa a far la serenata all’anziana moglie.

– Dottore, mi guardi e mi creda! Sono una povera anziana malmessa. Come potrebbero venire degli spasimanti a farmi la corte e per giunta in questo modo?

– E’ come dice lei: alterna momenti di scarsa attenzione e memoria, di ore in cui sembra non capire quello che vede davanti agli occhi, a periodi che durano persino giorni in cui rassomiglia all’uomo che era dieci anni fa…

Non bastavano i musicanti: la loro scomoda e immaginata presenza determinava pure una reazione delirante di gelosia e di conseguenza discussioni continue, privazioni di libertà, stress sull’anziana moglie, la quale peraltro non aveva raccontato nulla al medico curante e poi ai colleghi durante la degenza, probabilmente per l’energica sospettosità del marito, ma anche perché… nessun medico mi aveva posto queste domande!

Ancora qualche domanda alla donna alla scoperta della presenza di altre eventuali uova di Colombo, quell’altro:

– Si, dottore, da due otre anni è molto stitico. Il medico ci ha fatto fare ogni tanto una ricerca di sangue occulto nelle feci, sempre risultata negativa. Abbiamo cercato di ovviare con erbe, frutta e legumi, qualche supposta di glicerina…

– Ora che ci penso, mi ha picchiato qualche notte negli ultimi tre o quattro anni, di recente con una maggiore frequenza. Sembrava in preda a incubi. A vederlo sembra “cattivo” ma in verità non mi ha mai toccata con un dito se non in queste circostanze che lei mi ha ricordato…

E qualcuna al paziente:

– no, ha ragione! Non sento bene gli odori…

– non mi sento inutile, di peso agli altri. Insomma, non sono depresso. Non ho la gran voglia di fare come era una volta, ma frequentare gli altri mi interessa poco…

04 le uova di colombo

La diagnosi possibile a questo punto era di demenza a corpi di Lewy (LBD).

05 le uova di colombo

Renato V. migliorò inizialmente in modo netto con i cerotti di un inibitore delle colinesterasi (I-ChE), la rivastigmina (Exelon, ecc.) sia a livello cognitivo che parzialmente sul piano psichico. Non ci fu bisogno di dare antipsicotici, peraltro spesso gravati da reazioni o scarsa efficacia soprattutto in questa forma di demenza (vedi su PLV 2017 il commento della moglie di Robin Williams, malato a sua insaputa).

Circa un anno dopo, col peggiorare dei sintomi cognitivi e motori, ma in particolare di quelli comportamentali, in buona parte l’agitazione conseguente al mancato riconoscimento della propria casa e degli stessi familiari, si mostrò efficace la “formazione” di chi gli viveva accanto alle strategie non farmacologiche…  e qualche goccia di trazodone (Trittico) la sera.

Renato V. si aggravò nei due anni successivi in tutte le componenti, compresa quella vegetativa*: ricominciò a svenire in varie occasioni e con diversi fattori scatenanti fino a quando si decise di tenerlo “protetto” in sedia a rotelle, e questo anche per il concomitante aggravamento del parkinsonismo (ovviamente non curabile con i farmaci per la “vera” malattia di Parkinson). Morì nel 2014.

* Le alterazioni vegetative sono legate a disfunzione dell’apparato autonomico centrale (sistema simpatico e parasimpatico, ipotalamo, ecc.) ed in qualche modo agli organi interni, a quelli endocrini e di senso.

06 le uova di colomboSi tratta di funzioni che non comandiamo attraverso la volontà, come la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca, la sensazione di caldo e freddo e la temperatura corporea, la stessa organizzazione del sonno, il peso corporeo, il senso della sete o della fame, magari orientata verso cibi dolci, oppure al contrario il rifiuto del cibo, il controllo degli sfinteri e gli impulsi sessuali. Per il sonno, si pensi solo all’inversione del ritmo veglia-sonno oppure ai disturbi comportamentali e motori nel sonno REM (RBD, REM Behavior Disorders)

Riflessioni e commenti.

– decisiva resta l’anamnesi, la raccolta della storia clinica! I familiari erano stati piuttosto imprecisi nel fornire dati importanti

– la scoperta tardiva delle allucinazioni e della psicosi: responsabilità di noi professionisti e dei familiari

– un richiamo ai colleghi: e il banale controllo della PA in ortostatismo?

– non sempre si riesce a convalidare quest’ultimo dato con un Tilt-Test, forse per mancanza di tempo da parte dei cardiologi nell’eseguirlo (credo che questo comportamento vari secondo le realtà locali)

– la conferma del sospetto diagnostico è avvenuta anche attraverso una scintigrafia cerebrale, il DATSCAN, ma principalmente seguendo il decorso clinico, piuttosto “veloce” in ambito cognitivo e motorio, malgrado i miglioramenti dei primi mesi

– non basta essere neurologo, psichiatra, internista o geriatra, medico di medicina generale, per affrontare le forme di demenza più complesse! Accanto alle doti umane bisogna allargare lo sguardo e la competenza anche professionale.

Quanto tempo sprecato. Quanti altri neuroni perduti a causa delle alterazioni emodinamiche cerebrali da ipotensione posturale!

Per riflessioni sui danni emodinamici cerebrali “da pressione arteriosa bassa” o, meglio, da un non perfetto controllo della pressione arteriosa negli anziani, vedi il mio contributo Artigiani coraggiosi e altre strane figure nel territorio della Salute su www.perlungavita.it 2016.

Con il terzo racconto di corpi… di Lewy ho voluto descrivere alcuni casi per qualche verso insoliti e comunque utili a insegnarci qualcosa, a stimolare la nostra curiosità sana, a emozionarci. C’è ancora altro, e tanto, da dire ancora su questa ed altre forme di demenze, sulle singole storie di umana e amara sofferenza.

Vecchi sbagliati si diventa da bambini (ovvero, è nostra responsabilità fare prevenzione sin da piccoli sempre che le condizioni familiari, sociali ed economiche ce lo consentano!) ma può accadere che vecchi sbagliati si diventi per responsabilità di chi dovrebbe prendersi cura di noi.

Ferdinando Schiavo

Pubblicato su www.perlungavita.it ottobre 2017

Pubblicato in Storie Cliniche | Lascia un commento |

Storie di corpi… di Lewy – Robin Williams, malato a sua insaputa

Pubblicato su 14 Luglio 2017 di Ferdinando Schiavo

robin williams

Pubblicato su www.perlungavita.it (giugno 2017)

Ti scrivo per condividere una storia con te, appositamente per te. La mia speranza é che questo possa aiutarti a capire un po’ di più i tuoi pazienti, con i loro compagni di vita e chi si prende cura di loro.

E’ l’inizio dalla lettera scritta dalla moglie dell’attore Robin Williams, Susan Schneider Williams, pubblicata nel 2016 sull’autorevole Neurology, successivamente riprodotta nel 2017 su Psicogeriatria nella traduzione a cura della collega Sara Tironi con il commento di Amalia C. Bruni, Valentina Laganà e Francesca Frangipane del Centro Regionale di Neurogenetica, Lamezia Terme – ASP CZ. Una lettera rivolta a tutti noi medici nella speranza che uno di noi (non certamente io: sono solamente un clinico e pure al tramonto) possa essere lo scopritore della cura della terribile demenza a corpi diffusi di Lewy (LBD) che aveva colpito l’attore… a sua insaputa.

Come qualcuno ricorderà, Robin Williams si suicidò l’11 agosto del 2014 nella sua casa. L’autopsia rivelò che era affetto da LBD e chiarì un caso piuttosto atipico, almeno nelle fasi iniziali e ancora senza una precisa diagnosi in vita.

Il racconto della moglie è sconvolgente. Ne riproduco altri pochi brani significativi e ricchi di emozioni, ma anche utili a scopo didattico.

Inizia con la descrizione del loro idilliaco rapporto per poi entrare nel vivo della narrazione dei primi sintomi:… I colori stavano cambiando e l’aria era frizzante; era la fine di ottobre del 2013 ed eravamo al nostro secondo anniversario di matrimonio. Robin era in cura dai suoi medici. Era alle prese con sintomi aspecifici: costipazione, difficoltà ad urinare, bruciore di stomaco, notti in bianco ed insonnia, disturbo dell’olfatto e molto stress. Aveva avuto anche un leggero tremore nella mano sinistra, che sembrava andare e venire. In un primo momento questo fu attribuito ad un precedente trauma alla spalla.

All’inizio di aprile Robin ebbe un attacco di panico. Era a Vancouver per le riprese di “Una Notte al Museo 3”. Il suo medico gli aveva consigliato un farmaco antipsicotico contro l’ansia. Da un certo punto di vista le cose migliorarono, ma peggiorarono per altri versi. Rapidamente abbiamo cercato qualcosa di diverso. Ho saputo solo dopo la sua morte che spesso i farmaci antipsicotici possono peggiorare i sintomi nelle persone con LBD… (se noi medici ne tenessimo conto!).

La sua paura ed ansia avevano raggiunto livelli estremi, a tal punto da essere allarmanti. Nei miei pensieri più nascosti mi chiedevo se mio marito fosse ipocondriaco.

Solo dopo la morte di Robin ho scoperto che ansia e paura possono essere le prime avvisaglie della LBD…

… Il 28 maggio gli é stata diagnosticata la Malattia di Parkinson (PD). Avevamo avuto una risposta. Il mio cuore si gonfiò di speranza… Ma in qualche modo sapevo che Robin non credeva a questa diagnosi. Quando eravamo nello studio del neurologo per imparare cosa significava veramente avere il Parkinson, Robin ebbe la possibilità di porre alcune domande pesanti. Chiese: “ho la demenza di Alzheimer? (più intuitivo dei medici che lo avevano in cura)… sono schizofrenico?” Le risposte che ricevemmo furono delle migliori: no, no e no.

… Durante l’estate… Robin era sempre più stanco. La maschera parkinsoniana era sempre presente e la sua voce si era affievolita. Il tremore alla sua mano sinistra era ormai continuo e il passo era diventato lento e strisciante. Odiava non riuscire a trovare le parole che voleva nelle conversazioni. Le notti erano caratterizzate da movimenti involontari a scatto ed aveva ancora un’insonnia terribile. A volte si trovava bloccato, come congelato, incapace di muoversi, e provava frustrazione quando si sbloccava. Cominciava ad avere problemi con le abilità visive e spaziali per quanto riguarda il giudicare distanza e profondità. La sua perdita di capacita di fare ragionamenti banali si andava ad aggiungere alla sua crescente confusione. Si sentiva come se stesse affogando nei suoi sintomi e mi stava facendo annegare insieme a lui.

Tipicamente la gamma di sintomi della LBD fluttua senza una logica, anche nel corso della stessa giornata. Ho visto mio marito essere perfettamente lucido e fare ragionamenti chiari per un minuto e poi cinque minuti più tardi ritrovarlo svuotato, perso all’interno della sua confusione.

… Si stava avvicinando la fine di luglio e ci dissero che Robin aveva bisogno di fare dei test neurocognitivi per valutare la sua condizione (finalmente!)…

… Lunedi 11 agosto Robin se ne andò…

Tre mesi dopo la morte il rapporto dell’autopsia era finalmente pronto. Quando il medico legale ed il vice coroner mi chiesero se ero rimasta sorpresa dalla diagnosi di LBD risposi: “assolutamente no”, anche se non avevo idea di cosa significasse in quel momento. Il semplice fatto che qualcosa aveva invaso quasi tutte le regioni del cervello di mio marito aveva perfettamente senso per me. L’anno che seguì ho deciso di espandere la mia visione e la comprensione della LBD. Ho incontrato dei medici che avevano rivisto gli ultimi due anni delle cartelle cliniche di Robin, il rapporto del coroner e le lastre del cervello. Le loro reazioni erano tutte uguali: Robin era stato uno dei peggiori casi di LBD che avevano visto e che non c’era nient’altro che si sarebbe potuto fare.

… aveva perso circa il 40% dei neuroni dopaminergici e quasi nessun neurone era libero dai corpi di Lewy, sia nel cervello, sia nel tronco encefalico… un medico mi disse che c’era un’elevata concentrazione di corpi di Lewy nell’amigdala di mio marito; questa probabilmente era la causa dello stato (psichico) in cui si trovava.

… Un neuropatologo ha descritto LBD e PD come capi opposti di uno stesso spettro di malattia. Questo si basa su aspetti in comune: la presenza di corpi di Lewy, l’aggregazione innaturale della proteina normale α-sinucleina all’interno dei neuroni cerebrali. Sono rimasta sorpresa dall’apprendere che ad una persona venga diagnosticata la LBD o il PD a seconda di quale sintomo si presenta prima.

Come avrei voluto che lui fosse a conoscenza delle cause di tanta sofferenza, che non doveva spiegare solo con una sua “debolezza” di cuore, anima, carattere.

… Non potrò mai conoscere la verità sulla reale profondità della sua sofferenza, né quanto stesse combattendo duramente. Sono stata una spettatrice nel vedere l’uomo più coraggioso al mondo interpretare il ruolo più difficile della sua vita. Robin stava perdendo la sua mente e ne era consapevole. Lui continuava a dire: “voglio solo riprendere possesso delle mie facoltà mentali”.

Robin é e sarà sempre uno spirito straordinario; gli é solo capitato di essere una di quelle persone su sei che si ammalano di disturbi cognitivi. Per la LDB non ho perso solo mio marito, ma anche il mio migliore amico.

La lettera si conclude con un appello al medico lettore.

Speriamo che questa condivisione della nostra esperienza ti possa ispirare nel trasformare la sofferenza di Robin in qualcosa di significativo attraverso il tuo lavoro e la tua cultura. E’ mia convinzione che quando la malattia si potrà guarire, anche grazie all’esperienza di Robin, egli non avrà combattuto e non sarà morto invano.

Tu sei in una posizione unica per contribuire al progresso in questo campo. So che hai fatto molto già nei settori della ricerca sulle cure delle malattie del cervello. E sono sicura che a volte il progresso e percepito come dolorosamente lento. Non arrenderti. Abbi fede nel fatto che la scoperta di nuove cure sia imminente in tutte le aree delle malattie del cervello e tu farai parte di tutto questo. Se solo Robin ti avesse potuto incontrare. Ti avrebbe amato, non solo perché era un genio che avrebbe gioito per le scoperte della scienza, ma perché avrebbe trovato un sacco di materiale all’interno del tuo lavoro da utilizzare per intrattenere il suo pubblico. In realtà, il ruolo più spesso interpretato da lui e stato quello di medico. Tu e il tuo lavoro avete acceso una scintilla nelle zone della mia mente, dove risiedono curiosità e interesse e nel mio cuore, dove vive la speranza. Voglio seguirti; non come un fan impazzito, ma come qualcuno che sa che tu potrai essere tra quelli che scopriranno la cura per la LBD ed altre malattie del cervello. Grazie per quello che hai fatto e per quello che stai per fare.

Susan Schneider Williams

E’ difficile scrivere dopo una sollecitazione del genere.

Tuttavia, c’è anche un compito didattico nell’accorato testo di  Susan Schneider Williams e un invito che sa tanto di speranza. Per questo ho evidenziato sopra alcuni elementi aridamente clinici che fanno comprendere come corpo mente e cervello siano una unità.

Dopo il commento di Amalia C. Bruni e colleghe mi soffermerò su sintomi quali la stipsi o la perdita di odorato: cosa c’entrano con una demenza? Apparentemente nulla, se continuiamo a pensare che ogni demenza DEBBA iniziare con disturbi di memoria! Arriveremo inesorabilmente tardi se non teniamo nel debito conto che esistono altre sfere della cognitività diverse da quelle già complesse della memoria, che le demenze e soprattutto la LBD colpiscono anche dei neuroni che amo chiamare “vegetativi”, quelli di attività che non comandiamo e che hanno a che fare anche con gli ormoni ed altre sostanze, implicati come sono nell’architettura del sonno, nella percezione del caldo e freddo, nella sete e nella fame, nella scelta dei cibi, nella regolazione della pressione arteriosa quando da supini si passa in piedi, nel funzionamento degli sfinteri e della sessualità!

Amalia C. Bruni e le altre colleghe analizzano lo scritto di Susan e commentano alcuni aspetti. Approvo e supporto quanto sostengono, avverto lo stesso moto di giustificata irritazione di fronte alle frequenti pratiche del razzismo dell’età, l’ageismo, e alla mancanza di informazioni ai familiari e all’assenza di una loro reale formazione: le loro parole rispecchiano la mia lunga battaglia personale, per fortuna non isolata, che ho descritto in Malati per forza e poi nel Progetto La strage delle innocenti (www.alzheimerudine.it)!

Solo su un tema avrei allargato lo sguardo, anche se non era attinente alla tragedia di Robin Williams in quanto l’insight, la coscienza di malattia, nel grande attore era viva e, proprio per questo, fonte di ulteriore sofferenza e infine della decisione ultima.

Quando lavoravo in ospedale non mi era mai accaduto, credo, ma fuori ho sperimentato altre realtà umanamente rilevanti. I casi di persone con demenza assolutamente prive di coscienza di malattia appartengono a queste apparenti “novità”, fatti reali che hanno comunque accresciuto le mie personali conoscenze malgrado in qualche caso abbiano provocato delle divergenze di opinioni con altri addetti socio-sanitari super convinti che una coscienza di malattia esiste in tutte le persone con demenza.

Ne ho visto e seguo infatti diverse assolutamente e stabilmente prive di coscienza di malattia. Non sempre si tratta di demenze fronto-temporali (DFT) discomportamentali, la variante frontale più frequente, quella in cui i disturbi del comportamento rappresentano uno dei tratti tipici. Spesso, invece, sono “comuni” demenze alzheimeriane, a volte miste per la presenza di elementi vascolari.

Lo schema oramai è classico e per me prevedibile: telefona o viene da solo tramite un appuntamento in ambulatorio un congiunto di una persona con sintomi sospetti di demenza, spesso si tratta di una figlia. A volte la richiesta è giustificata dal desiderio di poter parlare liberamente senza ferire la persona presumibilmente malata, ma in altri casi è secondaria al fatto che quest’ultima non ha assoluta coscienza della propria malattia. I caregiver non sono in grado di convincerla a sottoporsi agli accertamenti e sono legittimamente preoccupati. Conservo le mail di almeno dieci familiari disperati per l’assoluta non collaborazione del loro malato che impediva una semplice valutazione clinica, i test neuropsicologici brevi, una TC dell’encefalo per sgomberare il campo dalla possibilità, seppur lontana, che ci fosse in quel cervello qualche “sorpresa” (neoplasia ed altro ancora!).

Questa ulteriore variabile impazzita, l’impenetrabile assenza di coscienza di malattia, può esporre paziente e familiari al rischio di conseguenze serie, come ad esempio danni derivanti dalla maldestra guida di una autovettura, dall’uso del gas in cucina, da errori nell’assunzione di farmaci per malattie varie (si pensi al diabete mellito insulinodipendente, all’ipertensione), per non parlare di truffe e raggiri. Il rischio è maggiore, ho notato, se la persona con demenza “aveva” (quando stava bene…) una personalità forte e indipendente, se era decisionista e abituata al comando: in questi casi risulta sicuramente problematico farle accettare, sono alcuni esempi vissuti, l’aiuto parziale o stabile di una badante in casa, il supporto di qualcuno se va a passeggiare o a fare la spesa, la sospensione della guida e (appunto!) la stessa visita dal medico, un esame, una terapia e comunque un adeguato controllo della situazione clinica.

L’assenza assoluta di coscienza di malattia, peraltro, impedisce che la persona malata possa ricevere tutele legali o amministrative (assegno di accompagnamento, ecc.) in quanto è improbabile che abbia voglia di presentarsi fisicamente in tribunale da un giudice oppure davanti ad una commissione per l’invalidità, in quanto lei “è sana”. Un comportamento del genere altamente spossante e denso di preoccupazioni per i familiari crea un indubbio aumento del carico di lavoro e stress, nonché possibili danni economici e materiali per l’intera famiglia.

Come si può ovviare? Mi sono permesso di dare un consiglio ai colleghi e ai familiari, augurandomi di non espormi legalmente, visto che é dato a fin di bene altrui! Suggerisco di autoinviarsi per posta a casa propria, o a casa della persona malata, una “lettera raccomandata dell’INPS” o altro istituto, in cui… a causa delle nuove disposizioni governative della legge 24567… del 2016, il pensionato (augurandosi che lo sia…) deve presentarsi quel giorno e a quell’ora dal neurologo di fiducia dell’Istituto per una valutazione utile a confermare alcuni dati riguardanti la salute e di conseguenza la consistenza dell’assegno pensionistico… Ventilando anche la possibilità di un incremento di questo! In tale modo si può arrivare, almeno, ad una prima valutazione clinica. Non è molto, ma è già qualcosa.

Dall’altra parte della scenario chi lavora in questo campo trova la persona malata pienamente cosciente del proprio stato, la quale soffre spesso di depressione (e ciò appare anche giustificabile e accade, appunto, nella vicenda di cui si sta scrivendo) e peraltro non sempre reagisce positivamente alle terapie antidepressive tentate.

Al di fuori da questa visione manichea, bianco o nero, in realtà esistono variazioni della coscienza di malattia, spesso fluttuanti nell’arco di ore o giorni, e certamente sono presenti forme sotterranee di dolorosa coscienza che noi sani non sappiamo cogliere.

Chiusa questa parentesi, procedo a un breve racconto riportando le argomentazioni di Amalia C. Bruni e colleghe:

Susan scrive un pezzo di poesia ma l’obiettivo non è scrivere per fare un film o una pièce teatrale, l’obiettivo é altro. Il suo é un appello. Susan scrive a noi medici, a noi ricercatori, nella speranza di poter capire ancora… dopo tanto tempo… capire perché, capire cosa e successo, capire se avesse potuto aiutarlo di più o meglio. Spingerci a lavorare, ad andare avanti a non arrenderci per i tanti insuccessi. Ma ancora liberarsi da un dolore profondo che divora… Quante Susan esistono nel mondo che non hanno la possibilità o non sanno comunicare in questo modo cosi efficace, scrivere di questo dolore e provare a liberarsi. Susan rappresenta tutti i familiari, tutti i caregiver che vivono accanto ai loro cari storie similari, fatiche similari, a volte ancora peggiori. L’editoriale, al di là di emozioni e sentimenti che comunica in maniera struggente, é anche un pezzo di didattica importante e tocca alcuni punti fondamentali su cui possiamo e dobbiamo fare alcune riflessioni.

… La difficoltà della diagnosi. E’ il grande problema: solo il 50% dei pazienti con una forma di demenza viene oggi diagnosticato (Connolly A. et al., 2011). Gli altri sono fantasmi, nascosti nelle case o nelle RSA, non identificati o al massimo edulcorati sotto terminologie vergognose perché aspecifiche e che nulla hanno da invidiare alle fumose e fantasiose diagnosi degli OP (Ospedali Psichiatrici) di una volta che avevano dalla loro come scusante la reale mancanza di conoscenze. Nonostante l’impegno profuso nel combattere la definizione di “demenza senile” ancora oggi ne sentiamo e leggiamo. E sì che lo si é detto in tutte le salse che il fenomeno dell’aging (invecchiamento) non si accompagna ad un deterioramento cognitivo e comportamentale.

Ma dall’altro lato della curva della vita c’é il giovane, colui che proprio perché giovane non si può ammalare di patologie dementigene, a maggior ragione quando, presentando una forma in cui il disturbo comportamentale e preminente, il tutto diventa relegabile nell’anfratto, spesso indistinto, delle patologie psichiatriche. Quante le diagnosi di schizofrenia in presenza di DFT (Demenza Fronto-Temporale a impronta discomportamentale)! …

Perché allora non si fa la diagnosi? Invochiamo genericamente una grossolana mancanza di conoscenze approfondite e aggiornate ma anche la reale difficoltà del riconoscere un sintomo così aspecifico come la depressione o l’ansia come possibile segno di una malattia dementigena che sta arrivando… (eppure i dati esistono).

… Ma quale valore di “rischio” possiamo conferire alla nostra ansia di cinquanta-sessantenni o alla depressione post pensionamento?

Aggiungerei: e quale valore assegnare ad una stitichezza o alla perdita dell’odorato, come è avvenuto all’esordio dei sintomi lamentati da Robin Williams? Stipsi e riduzione o perdita dell’odorato sono noti sintomi “preclinici” di LBD o di patologie dello stesso spettro di alterazione della alfa-sinucleina. Possono comparire anche diversi anni prima e rappresentano, insieme ai REM Behavior Disorders e a quadri di apatia e\o depressione la punta di iceberg poco conosciuta e molto lontana dagli stereotipi, dai luoghi comuni che attanagliano il territorio delle demenze al “solito” disturbo di memoria.

Ne ho scritto su www.perlungavita.it in aprile raccontando una storia di corpi… di Lewy: Un angelo alla mia tavola… anzi due.

Continuano Amalia C. Bruni e colleghe.

..  La difficoltà potrebbe essere causata dunque dalla tipologia dei sintomi iniziali che quando invadono il comportamento e la mente sembrano mettere fuori pista il medico. Troppo ancora esiste radicata la visione che la mente sia separata dal cervello…

… La demenza a corpi di Lewy é una patologia infida, forse più della malattia di Alzheimer, ma almeno

quanto le demenze frontotemporali. I segni comportamentali e soprattutto le oscillazioni del decorso clinico sono talmente inverosimili nella LBD che frequentemente i familiari ci dicono “sembra che lo faccia apposta”.

… E’ evidente che l’assistenza al malato é resa ancora più difficile dalla mancanza di informazioni e formazione che chi lo assiste dovrebbe ricevere dal personale sanitario; il caregiver “merita” il giusto sostegno per poter continuare la sua esistenza accanto ad un congiunto malato che diventa sempre più uno sconosciuto. Solitudine, confusione, senso di inadeguatezza e di perdita sono i sentimenti più spesso espressi dai familiari dei pazienti che, anche in cerca di migliore definizione diagnostica, iniziano, brancolando nel buio, il loro peregrinare tra vari medici.

E infine…

La speranza di Susan, e di tanti familiari, é che le sofferenze dei propri congiunti possano un giorno aiutare altri pazienti, altre famiglie, i medici e i ricercatori a combattere queste terribili malattie. Il suo impegno nel sostegno alla ricerca, attraverso la Brain Foundation é comunque, ancora una volta, un modo di sublimare il dolore e il vuoto della perdita.

Quante Susan abbiamo incontrato nei nostri ambulatori, nelle nostre associazioni e con noi a fianco nel nostro lavoro di assistenza e di ricerca, avide di speranza, imploranti e disponibili a fare di tutto, il massimo, l’impossibile per andare avanti e combattere in nome dei loro cari.

Con loro e per loro non ci arrenderemo.

Amo questo spirito da combattenti, resistenti e battaglieri!

Il clima di speranza che l’autrice ci induce a respirare mi ricorda la vicenda reale della scrittrice americana Joan Didion descritta nel suo “L’anno del pensiero magico”, un libro sui modi con cui la gente affronta, o non affronta affatto, il tema della morte, il fatto che la vita finisce. In un gesto che sa di sovrapposizione fra consapevolezza razionale e desiderio insensato l’autrice accetta che il marito, morto “in un normalissimo istante” in casa per un problema cardiaco acuto, venga sottoposto ad autopsia. Questa scelta servirà sicuramente a svelarle e farle comprendere le cause della morte, e tuttavia contiene un sottofondo di disperata speranza: che una procedura cruenta, quale è un esame autoptico, possa restituirle, quasi fosse un atto chirurgico risolutivo, il marito vivo e liberato finalmente da quella causa organica cardiaca che lo ha portato alla morte.

Per lo stesso atteggiamento, razionalmente non comprensibile ma accettabile nella cornice dominata dal dolore e dalla speranza, Joan regala giorni dopo i vestiti dello sposo… ma non le scarpe, nella illusione che possa tornare.

Penny Marshall è il regista del film Risvegli (1990). Robin vi interpreta un medico (e nella sua carriera ha interpretato, come sappiamo, più volte il ruolo del medico!), verosimilmente il neurologo britannico Oliver Sacks che ha scritto il libro omonimo da cui è tratto il film. Si trova a lavorare con malati ”congelati” da una forma di parkinsonismo post-encefalitico, tra questi un bravo De Niro. Sono persone che vengono inizialmente miracolate, risvegliate, dall’arrivo della terapia con L-DOPA circa cinquanta anni fa, ma dopo un po’ ripiombano nel loro buio irrigidito.

Chissà se questa esperienza di lavoro, basata su fatti realmente accaduti (l’encefalite letargica o encefalite di von Economo che ha infierito sotto forma di pandemia dal 1915 al 1920) abbia concorso alla decisione finale dell’attore.

Piccola bibliografia

Amalia C. Bruni, Valentina Laganà e Francesca Frangipane. Il demone nella mente di mio marito. Psicogeriatria 2017;1:29-37.

Schneider Williams S. The terrorist inside my husband’s brain. Neurology 2016;87:1308-11).

Ferdinando Schiavo

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Un angelo alla mia tavola… anzi due!

Pubblicato su 9 Maggio 2017 di Ferdinando Schiavo

un angelo alla mia tavolaPubblicato su:

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Eccoli che arrivano, i miei due angeli! Dai, sedetevi e mangiate! E’ il vostro piatto preferito. Poi mi direte come è andata a scuola…

Marta e Arturo guardavano il vuoto davanti a loro, il vuoto dei piatti vuoti, delle assenze reali dei due angeli. Non li sollevava dalla preoccupazione il fatto di avere capito dalle parole del papà qualche giorno prima che non si trattava di angeli veri ma di due bambini immaginari, immaginati, che venivano a trovare la mamma da mesi, all’inizio ogni tanto e per pochi minuti, poi sempre più frequentemente, quasi ogni giorno e sempre più a lungo.

Papà Eduardo interrogava i figli con uno sguardo perso, si aspettava una qualche spiegazione dal loro bagaglio culturale sicuramente superiore al suo. Ma Marta e Arturo erano stupiti e addolorati almeno quanto lui e del tutto impreparati a questa novità che aveva sconvolto la routine dei loro genitori.

Mamma Gina era stata una maestra elementare per quaranta anni, una di quelle che lasciano il segno, impegnata a dare insegnamenti utili a tutti, con un occhio democraticamente più attento ai figli dei meno abbienti, ai più poveri, ai meno colti per destino, un destino che si poteva cambiare arricchendo il bagaglio del sapere. Era fisicamente sana nei suoi settantaquattro anni ben portati e ricchi di interessi, almeno fino a pochi mesi prima.

Un breve ma consistente fatto febbrile influenzale all’inizio dell’autunno sembrava aver cambiato qualcosa nel suo variegato panorama di interessi. Intanto, una notte aveva cominciato a “vedere i due angeli” e poi a rivederli per brevi flash… Ma poteva essere la febbre, si disse tra se Eduardo, anche se la febbre era sparita in due giorni e questo quindi non giustificava gli altri episodi che erano arrivati poco dopo prima di sparire del tutto.

Non ritenne opportuno avvertire i figli, di impensierirli mentre, forti dei loro quarant’anni, erano impegnati a mantenere il lavoro e badare alle rispettive famiglie a qualche centinaio di chilometri di distanza. Per il resto Gina non era cambiata, a parte qualche perplessità di tanto in tanto su come preparare un piatto in cucina o sistemare gli indumenti stirati in armadio. Ecco, anche qualche errore nello stirare e prima ancora nel gestire i programmi di lavaggio in lavatrice!

Eduardo, strano per la sua generazione, era uomo “di casa”, sapeva usare gli elettrodomestici, era in grado di stirare con cura le sue camicie. Per questo annotava con stupore e preoccupazione quanto gli stava accadendo attorno saltuariamente.

Tuttavia, dopo qualche settimana gli angeli rifecero capolino, più spesso a tavola in uno dei due appuntamenti principali quotidiani col cibo. Una domenica Gina aveva persino apparecchiato la tavola per quattro e si era spesa a parlare coi due angeli per almeno un’ora. Il medico, per telefono, non gli aveva dato peso e aveva suggerito un po’ di valeriana.

A un certo punto, dopo un nuovo pranzo a quattro la domenica successiva, Edoardo uscì di casa con una scusa e chiamò al telefono i due figli. Stavolta bisognava avvertirli, condividere domande, preoccupazioni e soluzioni! Marta e Arturo, insegnante di scienze biologiche alle superiori la prima, avvocato esperto nei temi del lavoro l’altro, singolarmente frastornati, risposero che si sarebbero accordati tra di loro per raggiungere appena possibile i genitori. Lo richiamarono poco dopo per confermare che sarebbero venuti la domenica successiva in tempo per il pranzo, solo loro due, senza i rispettivi coniugi. E si sarebbero fermati una settimana.

E videro con malinconia la tavola già apparecchiata per sei. E poi la mamma chiacchierare amorevolmente coi due angeli, la squisita zuppa di ceci rimanere intatta nei loro due piatti ed essere portata via senza altri commenti. Papà e figli capirono che era meglio non fare domande sulle due strane presenze: anzi, senza che si fossero messi d’accordo in anticipo, scelsero di spostare l’attenzione su altri argomenti, il loro lavoro, alcune esperienze da raccontare utili in quei momenti drammatici a condurre altrove l’attenzione della mamma.

La strategia funzionò splendidamente. Gina si indignò per alcune porcherie avvenute a scuola raccontate dalla figlia, rise di gusto per altre storie, si interessò ai possibili risvolti positivi della vita di Arturo. Insomma, dimenticò gli angeli a tavola.

Con quale scusa si poteva portare la mamma dal medico? E poi, da che tipo di medico? Arturo, dopo la telefonata del padre, aveva fatto in tempo a parlarne ad un suo amico anestesista, fratello di un medico di medicina generale. Dal breve consulto a tre era venuto fuori il consiglio di parlarne con uno psichiatra o un internista. Marta invece interpellò il marito gastroenterologo di una sua collega e trovò così anche la giustificazione per portare la mamma da lui in quanto era diventata stranamente stitica da circa due anni.

Lo specialista fu gentile ma non in grado di dare una spiegazione per la scomoda presenza degli angeli e consigliò una colonscopia che eseguì pochi giorni dopo e che risultò negativa.

A questo punto serviva uno psichiatra: ne fu trovato uno disposto a venire a casa (non si poteva andare nel suo studio: era chiarissimo da alcuni segnali, targhetta professionale ed altro, che tipo di specialista fosse!) con la scusa di trovare un rimedio per la stitichezza essendo un luminare nell’uso di erbe curative.

Il finto erborista l’ascoltò attentamente, infine fece qualche domanda sugli angeli: Gina si mostrò dapprima titubante, poi ammise l’esistenza di queste visite all’ora di pranzo o cena. Erano vestiti coi grembiulini neri e il colletto bianco, precisò, biondi tutti e due e coi riccioli al vento, le cartelle appesantite da quaderni e libri. Sembravano loro da piccoli, rifletterono Marta e Arturo, che avevano solo un anno di differenza di età.

Il dottore scelse di non turbare ulteriormente Gina e così non volle approfondire il caso con precise domande su chi fossero e dove dormissero questi angeli, che scuola frequentassero. Consigliò degli esami del sangue e una TC cerebrale e una compressa di quetiapina la sera.

Agli esami non emerse nulla e così alla TC, ma nel frattempo con quel farmaco, la quetiapina, un antipsicotico atipico, le cose non erano cambiate: gli angeli erano sempre più spesso a tavola e Gina cominciava a sentirsi un po’ confusa, appariva anche un po’ rallentata nei movimenti.

Lo psichiatra consigliò di aumentare la dose ma le conseguenze sui sintomi furono disastrose. Il medico di famiglia assisteva a ciò che accadeva impotente di fronte al sapere dello specialista, ma si rese utile consigliando di sentire il parere di un collega neurologo.

Anche questa volta la valutazione “fisica” fece emergere solamente la presenza del leggero rallentamento dei movimenti spontanei e volontari che fu interpretato come un possibile inizio della malattia di Parkinson. Il passaggio dalla quetiapina ad un’altra molecola della stessa area degli antipsicotici atipici, il risperidone, non cambiò le cose.

Fu a questo punto che intervenne un secondo neurologo. Gina era oramai in balia sempre più spesso delle sue visioni che alternava a momenti di straordinaria lucidità, ma diventava sempre più lenta nei movimenti e a tratti confusa. Lo specialista pose delle domande un po’ diverse dai precedenti, alcune sembravano strane al marito e al figlio che, assieme alla sorella, aveva capito che la faccenda stava diventando seria e decidendo di conseguenza di tornare spesso per aiutare papà in questo viaggio nella nebbia.

– Sente bene gli odori?

– Da quanto tempo è diventata stitica?

– E’ depressa oppure non ha voglia di vedere gente, di socializzare?

– Mentre dorme “agisce il sogno” ovvero vive degli incubi e si difende anche picchiando chi le sta vicino?

A questo punto il marito sbiancò, tanto da far richiedere una sosta amorevole e un breve controllo cardiaco e della pressione arteriosa.

– Si, dottore, da almeno tre anni di tanto in tanto mia moglie grida e mi assale come se dovesse difendersi da qualcuno che l’aggredisce! Un po’ più di frequente durante questi ultimi mesi…

Sembra una demenza a corpi di Lewy, disse il neurologo, dopo che Gina aveva terminato dei test fatti di varie domande e di due disegni finali e si era allontanata in bagno con la figlia. Malgrado lo psicofarmaco Risperidone assunto fino alla sera prima e un certo rallentamento nelle risposte, era andata bene davanti agli occhi attenti e compiaciuti del marito e dei due figli. Ma proprio nella copia di quelle due casette, due pentagoni intrecciati tra di loro in un certo modo, aveva viaggiato per i fatti suoi, sorridendo. E non era andata meglio col disegno di un orologio da “costruire” all’interno di un cerchio e poi col posizionamento delle lancette alle 11,10.

Insomma, il test breve che si chiama Mini Mental (o meglio, MMSE), spiegò il medico, aveva un punteggio apparentemente ottimo. Tre punti persi: la data di quel giorno, a che piano era salita per raggiungere l’ambulatorio e infine la copia di quegli strani pentagoni. Il punteggio di 27 su 30 rientrava nel recinto apparente della normalità. Apparente, aveva aggiunto il medico, perché la copia sbagliata di quei due pentagoni, il test dell’orologio, la storia e i sintomi avevano confermato che Gina aveva un rapporto imperfetto con la percezione e l’utilizzo dello spazio anche se manteneva una vista da aquila.

Insomma, secondo il neurologo, si trattava con molta probabilità di una demenza a corpi di Lewy. C’erano quei test brevi, il racconto fatto di allucinazioni complesse e di qualche difficoltà nel governo della casa, il lieve parkinsonismo si vedeva a occhio nudo anche se poteva essere favorito, aiutato in certo modo, dai due antipsicotici seppure di quella nuova generazione, gli atipici, che aveva promesso di non provocarli. E poi la fluttuabilità dei sintomi, a tratti notevole da un’ora all’altra e da un giorno all’altro e quelle manifestazioni nascoste che con le demenze apparentemente non avevano rapporti: che c’entrava la stitichezza? E quelle bufere durante i sogni, anzi, gli incubi?

Alcuni esami, la PET cerebrale in particolare, e poi una valutazione cognitiva estensiva avvalorarono il sospetto dello specialista. Due svenimenti (episodi sincopali in linguaggio tecnico, impararono i familiari) appena alzata dalla sedia dopo pranzo si confermarono causati da un’altra anomalia del sistema vegetativo, quell’apparato complicato che non comandiamo: erano determinati da improvvise riduzioni di pressione col passaggio di Gina in piedi.

– Questa demenza è più complicata di tutte le altre e pure più veloce. Nessun farmaco è in grado di arrestarla. Addirittura, certi medicinali fanno precipitare la situazione. Ne parleremo con calma e percorrendo insieme i gradini quando compariranno i problemi. Leggete qui, è uno scritto che ho preparato per i familiari dei miei pazienti quando devono interpretare e affrontare malattie difficili da capire, e persino da accettare.

Le demenze

Negli ultimi decenni sono notevolmente migliorate le conoscenze e di conseguenza le possibilità diagnostiche in tema di alterazioni cognitive e comportamentali secondarie a diverse patologie neurologiche, come ad es. sclerosi multipla, sequele di ictus cerebrale e di traumi cranici, malattia di Parkinson e parkinsonismi, arteriti craniche disimmunitarie, encefaliti, e ovviamente demenze su base degenerativa, vascolare, prionica, ecc. o secondarie, per le patologie extra-neurologiche, a ipotiroidismo, ipoparatiroidismo e panipopituitarismo, iponatriemia (SIADH da numerose cause, anche traumatiche), insufficienza respiratoria, renale ed epatica, ecc.

Le Demenze sono condizioni cliniche caratterizzate da perdita progressiva delle funzioni cognitive e/o da alterazioni comportamentali di entità tale da interferire con le usuali attività sociali e lavorative del paziente. La perdita delle capacità riguarda funzioni precedentemente acquisite nel corso della vita.

Fra le funzioni cognitive, quelle relative alla memoria (e le alterazioni conseguenti) sono apparentemente note a tutti. Le stesse abilità della memoria, tuttavia, obbediscono a meccanismi complessi: la memoria di lavoro serve a ricordare, ad esempio, per alcuni secondi un numero di telefono fino ad arrivare a comporlo all’apparecchio telefonico, sperando di non subire interferenze (come la domanda di qualcuno: scusa, sai l’ora ?), per poi dimenticarlo; la memoria episodica (richiamare gli episodi:...mi ricordo che…); la memoria semantica (attingere alle conoscenze, ai concetti: so che...); la memoria procedurale (è la memoria più duratura, può conservarsi immutata per tutta la vita: dopo aver imparato ad andare in bicicletta non si dimentica più…); la memoria prospettica (ricordare un impegno programmato).

Accanto alla memoria esistono diverse ed altrettanto essenziali abilità necessarie al complesso funzionamento della nostra mente: l’attenzione, su cui si fonda necessariamente il processo di memorizzazione e parte delle altre capacità cognitive (se siamo distratti da nostri seri problemi, o storditi dal sonno oppure da psicofarmaci, o semplicemente avvertiamo che un avvenimento, una persona, un luogo, “non ci interessano”, difficilmente li invieremo e poi manterremo nel bagaglio della memoria); il linguaggio (intendendo la capacità di esprimersi, ma anche di comprendere, di leggere e scrivere); l’orientamento nel tempo e nello spazio (in che anno, stagione ecc. siamo, dove ci troviamo); le abilità visuo-spaziali (l’occhio “vede” ma è il cervello che esamina e “capisce” lo spazio che sta attorno!); in tale ambito collaborano le capacità percettive legate alla gnosia (come l’abilità a riconoscere il water rispetto al bidet, la propria abitazione, o addirittura i volti dei propri familiari, con le conseguenze immaginabili sotto il profilo comportamentale quando ciò non avviene); la prassia (ad es. la capacità di “organizzarsi” per vestirsi o cucinare seguendo un certo ordine nella successione degli atti motori); la capacità di pensiero astratto, nonché di critica e di giudizio, di ragionamento, e poi le funzioni esecutive di pianificazione, elaborazione ed eventuale modificazione di compiti adattandosi alle circostanze, doti “sotterranee” che, quando vengono alterate da patologie varie delle aree frontali cerebrali, comportano errori nella programmazione di un’azione e spesso la perdita della flessibilità con la conseguente perseverazione in comportamenti errati.

I problemi comportamentali consistono, con i limiti della sintesi, in: abulia-apatia (perdita di interesse, motivazione, iniziativa; conseguente isolamento sociale), isolata o associata ai sintomi depressivi; depressione (tristezza, senso di colpa, di inutilità, pessimismo, perdita dell’autostima, ansia, angoscia al risveglio, ecc.); agitazione psicomotoria (irrequietezza, atti ripetitivi come vestirsi e svestirsi o aprire e chiudere armadi, marcia incessante e senza una finalità); aggressività (verbale, fisica); psicosi (deliri, in particolare di furto, di danneggiamento, di gelosia); allucinazioni visive o uditive; numerose altre anomalie comportamentali: alterazioni del ritmo veglia-sonno; comportamento socialmente inaccettabile o sessualmente inappropriato, disinibizione; euforia senza motivi, fatuità, distacco emotivo, bruschi cambiamenti di umore, ansia e paure immotivate; attività motoria impropria e incessante (wandering) come vagabondaggio, pedinamento, inseguimento, affaccendamento notturno, fughe; “sindrome del tramonto” (peggioramento del comportamento al calar della luce naturale); condotta alimentare impropria come preferenza ostinata per certi cibi, bulimia o anoressia; stereotipie motorie (ripetizione incessante di determinati movimenti, come battere i piedi o sfregarsi le mani); misidentificazioni da turbe percettive e agnosiche (non riconoscere la propria casa, il marito, i figli).

Le problematiche comportamentali, numerose e stressanti, richiedono una scrupolosa e attenta analisi e la corretta formazione per trattarle con (e soprattutto senza!) farmaci: a volte “dipendono” dalle alterazioni cognitive, nelle misidentificazioni, come quando una persona con demenza non riconosce la propria casa e diventa aggressiva “perché vuole tornare a casa” intendendo spesso la casa dove è nata. Queste manifestazioni in genere risentono poco della terapia farmacologica “sedativa”, la quale potrebbe paradossalmente peggiorare alcuni aspetti del quadro generale e neurologico.

Accanto agli aspetti cognitivi e comportamentali in alcuni casi sono presenti alterazioni motorie, in genere di tipo parkinsoniano (si tratta in prevalenza di lentezza del movimento e rigidità piuttosto che del classico tremore) e vegetative. Mi soffermo intanto su quest’ultimo punto per chiarirne meglio il significato: nel nostro cervello esistono centri neuronali cosiddetti autonomico-vegetativi che, in collaborazione con il complesso apparato endocrino, agiscono su funzioni che non comandiamo attraverso la volontà, come la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca, la sensazione percepita di caldo e freddo, il peso corporeo, la stessa organizzazione del sonno, e altre su cui possiamo agire parzialmente con un nostro impegno, come l’eccessiva fame, spesso orientata verso cibi dolci oppure, al contrario, il rifiuto del cibo, il controllo degli sfinteri e persino gli impulsi sessuali.

Demenze e luoghi comuni. La struttura clinica delle demenze, di qualsiasi natura, è caratterizzata da una grande variabilità nell’esordio e nell’evoluzione, per cui bisogna superare quella distorta visione unitaria che vede(va) in passato la demenza di Alzheimer (AD) destinata a riassumere tutto lo scenario delle altre demenze. La stessa demenza di Alzheimer (che rappresenta circa il 60% delle demenze) può esordire con disturbi visuo-percettivi (Atrofia Corticale Posteriore, PCA), comportamentali o esecutivi (forma frontale), oppure della sfera del linguaggio (danno prevalente temporale sinistro)… invece delle attese anomalie mnesiche.

Le demenze non sono tutte alzheimeriane e inoltre “le altre demenze” posseggono tratti assolutamente diversi rispetto a quanto atteso in questa malattia (apparentemente) più nota.

Questo “altro” 40% prevede un esordio “diverso” da quello relativo alla perdita di memoria, manifestandosi con apatia, alterazioni “frontali” di pianificazione nei diversi tipi di demenza vascolare:

– con disturbi comportamentali e\o del linguaggio nelle demenze fronto-temporali, tipicamente “pre-senili”;

– con problemi “organizzativi” e di percezione dello spazio, allucinazioni visive complesse, parkinsonismo, estrema fluttuabilità dei sintomi, a volte sincopi per riduzione della pressione arteriosa al passaggio dalla posizione supina a quella eretta, saltuariamente sonnolenza oppure confusione mentale, episodi notturni caratterizzati da azioni motorie complesse durante la fase REM (RBD: REM Behavior Disorder), come avviene nella demenza più complessa, quella a corpi di Lewy (LBD). Un quadro di demenza simile alla LBD può essere rappresentato dalla malattia di Parkinson (MP) che evolve in demenza (MP-D) in quanto ambedue le malattie (così come l’altra sinucleinopatia, l’Atrofia Multisistemica, AMS) dipendono dal danno neuronale creato prevalentemente dall’alfa-sinucleina alterata.

Tanto per tornare a discutere di esordi, sia la LBD che la stessa malattia di Parkinson possono essere preceduti (anche di un decennio o più!) da quelli che da pochi anni vengono considerati utili segni pre-clinici di sinucleinopatia: RBD, perdita dell’odorato, depressione o apatia, e persino stitichezza.

Non restava che aspettare, con dolore.

Ferdinando Schiavo

Articolo pubblicato nell’aprile 2017 su www.perlungavita.it

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Storia di ordinaria acatisia

Pubblicato su 25 Novembre 2015 di Ferdinando Schiavo

acatisia

Lo vede, lo vede, dottore…All’unisono le due donne, la moglie e l’anziana madre, cercavano di farmi capire che quell’uomo di 56 anni, GP, da mesi non stava mai fermo e le stava portando all’esasperazione.
Un anno prima gli era stata diagnosticata una demenza fronto-temporale (DFT) variante comportamentale.

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Una depressione che peggiora con gli antidepressivi

Pubblicato su 25 Novembre 2015 di Ferdinando Schiavo

depressione-puraDa un imprenditore superattivo come lui non se lo sarebbero aspettato né i familiari né gli amici. Donato F. a 78 anni era diventato “depresso” nello spazio di un anno. Non andava più a dare una mano all’azienda affidata da qualche anno alle sapienti e scrupolose mani del figlio, rinviava le occasioni di spazi sociali che aveva coltivato con costanza e impegno, rubando volentieri tempo al suo amato lavoro.

Il suo medico e poi un geriatra gli avevano consigliato degli antidepressivi, ne aveva provati in successione almeno quattro, ma senza ottenere alcun miglioramento. Anzi, era diventato esageratamente tranquillo e sereno, con qualche problema nel programmare la giornata e nei banali, consueti lavoretti nel giardino che lo avevano sempre appassionato.

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La donna che fu scambiata per demente

Pubblicato su 28 Ottobre 2015 di Ferdinando Schiavo

Intanto una vicenda che avrebbe avuto clamore mediatico se fosse stata protagonista una malattia “chirurgica”…

parkinsonAvete mai visto articoli su quotidiani o storie raccontate in TV che parlano di un “miracolo”, ovvero di una guarigione dovuta alla sospensione di un farmaco, in breve dei casi di persone scampate da una “malattia medica” dopo la sospensione di una medicina?

Non è avvenuto mai, credo, a mia memoria. In compenso erano e sono ben più vistosi e mediatici gli articoli che trattano dei “miracoli in area chirurgica” (riattaccata una mano amputata da una sega; salvata la vista di un occhio con un intervento innovativo…) ma anche, per onestà, degli errori clamorosi (amputata la gamba sana; dimenticata la garza nell’ addome…).

Ecco, questa indifferenza nel bene e nel male che riguarda l’ambito medico rispetto a quello più mediatico, il chirurgico, permane nel tempo, non fa notizia.

Ciò che non fa notizia, non esiste!
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Pubblicato in Storie Cliniche | Tag: demenza, diagnosi sbagliata, lina | 5 Commenti |

Attimi di felicità dimenticati

Pubblicato su 28 Ottobre 2015 di Ferdinando Schiavo

amnesiaNon la vedevo da decenni, ma Anita me la ricordavo bene per la sua bellezza limpida e senza compromessi, perché era intelligente di un’intelligenza sensibile e umana, attenta agli altri e mai al proprio narciso, infine, perché era sposata e dava l’idea di essere felice e orgogliosa della fedeltà che traspariva dalla coppia che formava con Luciano.

Le compagnie cambiavano spesso in quegli anni settanta, c’era tanta fantasia liquida prima ancora che ce la raccontasse Zigmud Bauman, e così ci eravamo persi di vista. Poi, il resto della vita, le delusioni, gli errori, le separazioni, il lavoro, i figli, le scelte più mature, non ci avevano concesso di incontrarci più.

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Pubblicato in Storie Cliniche | Tag: amnesia, ischemia, lacuna mnesica | Lascia un commento |

Avviso rivolto a coloro che mi sottopongono la soluzioni di casi clinici per email, telefono o alla fine di una conferenza

Pubblicato su 27 Ottobre 2015 di Ferdinando Schiavo

01

Accade che alla fine di una conferenza una persona tra il pubblico mi esponga un caso clinico molto spesso complicato che riguarda se stesso o un familiare, accompagnandolo con una richiesta di diagnosi o terapia, precisando che alla sua soluzione si sono già impegnati senza successo diversi miei colleghi. E così, con sguardo che ondeggia tra la speranza e forse anche la sfida, vorrebbe da me una spiegazione e una diagnosi, così su due piedi!

Oppure mi capita di essere contattato per telefono o via mail da persone che descrivono un caso clinico con lunghe e necessarie spiegazioni corredate da esami e l’immancabile risonanza magnetica (che tutto dovrebbe vedere e tutto dovrebbe risolvere…) richiedendo un parere e, ancora meglio, una diagnosi certa. Rispondo il più delle volte che è un compito impossibile “da lontano” perché i casi clinici neurologici sono solitamente complessi e per una valutazione seria serve presenza, tempo e impegno. Nel mondo degli anziani la complessità è la regola! scriveva anni fa il grande psicogeriatra George Alexopoulos.

Replico così anche per quesiti apparentemente semplici, come quando mi viene richiesto dalla platea o per telefono o per mail un rimedio per l’insonnia. L’affermazione in genere è secca: NON DORMO, oppure NON DORME riferendosi ad un familiare, magari con demenza (e qui il caso diventa realmente più complicato!). La domanda, in qualsiasi circostanza (platea, telefonata o mail che sia), sembra presupporre una risposta rapida e, ovviamente, farmacologica. Ad essa però rispondo che non può essere questa la strada corretta, almeno in una dimensione di serietà professionale nella quale chi indaga dovrebbe enumerare, tra l’altro, una serie infinita di domande, che provo ad elencare per il caso dell’esempio affrontato, l’insonnia: ha difficoltà ad addormentarsi o si sveglia nel mezzo della notte o alle prime luci dell’alba? Si sveglia spontaneamente o per bisogni fisiologici magari ripetuti nella notte? A che ora va a letto, che cosa beve o mangia di «eccitante» durante il giorno, cosa mangia o beve a cena, che farmaci usa, russa, va in apnea, come dormiva prima di ammalarsi? Non è finita, naturalmente. Bisogna studiare la personalità, i bisogni, soprattutto i disagi confessabili tentando di capire se esistano quelli inconfessati; interpretare il contesto sociale e familiare e altro ancora. Infine, prospettare delle soluzioni, che non sempre includono uno psicofarmaco, in quanto a volte può bastare applicare alcune strategie da seguire per una corretta “igiene del sonno”, sulle quali non mi soffermo.

Questa modalità di lavoro, poiché di lavoro si tratta e non di gioco mediatico-televisivo, riferita all’esempio dell’insonnia ma ampliabile a numerose manifestazioni cliniche, richiede di “capire” numerosi elementi per poi ben operare, e sta certamente agli antipodi rispetto alla mentalità di chi, semplificando eccessivamente, si attende la facile soluzione, che a quanto pare prevede la veloce prescrizione di un ipnotico e i saluti di commiato.

Lo stile è simile anche quando si risponde a quesiti più complessi del ricco armamentario delle scienze neurologiche: strane cefalee, saltuari formicolii, vertigini, svenimenti, fallimenti di memoria o della parola, anomalie di comportamento (quando non rientrano tra le manifestazioni delle quali è competente lo psichiatra), alterazioni semplici e complicate del movimento, perdite di forza, svariati disturbi della vista (vedere doppio, come descritto prima, ha quasi sempre un patologia neurologica alle spalle) e numerose altre macedonie di sintomi che sono parte del lavoro quotidiano del neurologo.

La buona medicina ha necessità di tempo e di professionalità, di empatia, di buona informazione verso “chi non sa”.

Il rapporto fra professionista della salute (medico e non) e paziente è un confronto impari fra uno che sa verso uno che non sa, uno che è forte verso uno che è debole. Una modalità antica, che nello stesso tempo dobbiamo considerare innovativa, ci dice che questo rapporto deve basarsi invece:

– sull’empatia (so che cosa avverti nell’animo),

– sulla informazione (hai il diritto di sapere),

– sulla comunicazione (devo essere in grado di sapertelo dire), e infine sulla professionalità (so che cosa fare a livello tecnico).

Riassumo. La richiesta di una diagnosi attraverso domande dalla platea oppure gli attuali mezzi di comunicazione, magari supportata da esami a cui viene illegittimamente data la patente di fattori risolutori, dimostra che pazienti, familiari e comuni cittadini non hanno idea di come si svolga una valutazione medica neurologica seria e accurata. Questa mia riflessione cerca di fare chiarezza su un aspetto della relazione medico-cittadino, che peraltro non sta vivendo oggi una fase unanimemente descrivibile come idilliaca, per diversi motivi.

La lettera è indirizzata a pazienti e familiari affinché capiscano che la mancata collaborazione, almeno la mia, non è dettata da insensibilità, disinteresse, cinismo, opportunismo e tornacontismo (detto volgarmente: dovete venire in ambulatorio e pagare la prestazione!).

Eccola:

Gentile Signora, gentile Signore, è realmente arduo poter dare risposte “da lontano”, senza vedere, osservare, ascoltare, domandare, ri-domandare, precisare, toccare, esaminare con accuratezza la mente e il corpo, gli esami, i mille aspetti che contraddistinguono quel caso clinico e umano Suo personale oppure di una persona a Lei cara, con la finalità di pervenire ad una corretta diagnosi e, di conseguenza, ad una soluzione idonea.

Ogni persona è una storia, e noi dobbiamo ricordarci che entriamo nel privato di una storia umana diversa da ogni altra, sulla quale ricade il peso di una malattia che peraltro non è “sempre uguale” per tutti. E in una storia umana bisogna accedere con sana curiosità, sensibilità, rispetto, intuito e intelligenza.

Ancora più complicato è il compito di poter seguire (persino dal vivo!) e prendersi cura di una persona anziana. Le malattie croniche dell’anziano sfidano il modello dominante della medicina e dell’attuale assistenza, costruito per le malattie acute e non sulla complessità della condizione della persona avanti negli anni, solitamente portatrice di varie patologie e consumatrice di una sfilza di farmaci a numero crescente con gli anni che avanzano. Nella persona giovane, in genere, ad una causa corrisponde un effetto ed il compito della diagnosi e della cura può essere meno pesante rispetto a quando si affronta un quadro clinico di una persona anziana: in quest’ultima, lo schema di causa ed effetto, molte volte semplice da appurare, ovvero la mono-malattia, si avvera piuttosto raramente. La mono-malattia è un avversario contro cui ci si impegna avendo come obiettivo, peraltro, la guarigione; va bene quindi per i soggetti giovani o adulti, ma non sempre per gli anziani, in cui le priorità da affrontare si smarriscono. L’obiettivo della medicina per il paziente anziano è, infatti, la qualità della vita e non quello irrealizzabile della guarigione di tutte le malattie di cui di regola egli è affetto. La persona anziana, se è fragile, si trova spesso in una condizione instabile da “filo del rasoio”, in cui basta effettivamente poco per far precipitare la situazione, quel poco che a volte non viene adeguatamente indagato da una sanità frettolosa che in questo modo agisce  “contro” chi avrebbe maggior bisogno di essere esaminato e ascoltato con una adeguata dose di conoscenza gerontologica e le necessarie riflessioni.

Infatti, per creare un aggravamento della preesistente situazione di salute e a pregiudicare la sua stabilità clinica e autonomia funzionale attraverso una modalità da circolo vizioso oppure tramite un andamento progressivo a cascata, possono essere sufficienti un banale episodio  febbrile e le sue infinite cause; la disidratazione (e basterebbe prevenirla guardando la lingua o toccandola!); la ritenzione urinaria (sarebbe sufficiente palpare l’addome!); un fecaloma; un dolore fisico che l’anziano (in particolare se confuso nel corso di un delirium o malato di demenza) non riesce a tradurre in semplici informazioni che ci permettono di aiutarlo; una riduzione della pressione arteriosa stabilmente o solo in ortostatismo (la pressione arteriosa viene esaminata anche in piedi se in quella posizione la persona anziana riferisce sensazione di stordimento e va incontro al pericolo di cadute nonché di danno cerebrale emodinamico “silenzioso”); una ipoglicemia; gli effetti combinati di tanti farmaci e soprattutto degli psicofarmaci prescritti alla persona anziana come se fosse un quarantenne.

Nell’esempio che segue, la catena di eventi che inizia a causa di una patologia in fondo non drammatica ma che molti anziani, magari cognitivamente fragili, “non riescono a comunicare” come semplice bruciore a urinare, conduce all’incerto finale, che prevede anche la morte.

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Il compito di valutare “da lontano” diventa improbo se si affronta il tema delle demenze: le numerose variabili degli aspetti clinici non possono essere descritti qui. Inoltre, in ogni caso umano c’è una famiglia, elemento indispensabile del prendersi cura, ed esistono rapporti, personalità e dinamiche vecchie e nuove tra i diversi componenti.

Mi limito ad esporre alcune diapositive

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Sinteticamente: un atteggiamento “sbagliato” da parte di un familiare (o di una “badante”) nei confronti della persona cara malata di demenza può provocare l’esplosione di reazioni aggressive. Il caregiver familiare (o non familiare) deve pertanto essere FORMATO e deve STUDIARE. Gli psicofarmaci non sempre risolvono un comportamento ritenuto scorretto…

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Alcune demenze esordiscono ed evolvono in modo molto complesso…

Robin  corpi di lewi

… per cui è necessario, prioritario, un atteggiamento attento all’estrema variabilità e fluttuabilità ed evoluzione dei sintomi.

La neurologia e la neurogeriatria sono portatrici di tematiche e dinamiche sconosciute ai cittadini e spesso anche ai medici

cnamc  trabucchi  

Dai dettagli, per il resto, può nascere la corretta diagnosi e la migliore terapia!

Lo scritto conferma ancora una volta l’importanza dei “piccoli guadagni” in neurogeriatria, gli small gains, tutta quella cura fatta di dettagli sanitari, sociali ma soprattutto umani ed emozionali che possiamo offrire ai nostri anziani, piccoli interventi che sono in grado tuttavia di determinare spesso risultati clinici sorprendenti, con un forte rilievo soggettivo positivo in chi soffre da lunga data: una semplice visita ed una chiacchierata, uno stimolo ad uscire all’aria aperta e camminare un po’ di più, a curare l’alimentazione, a cucinare qualcosa insieme, a cantare, persino alla cura dei piedi, strutture che i geriatri tengono in gran conto, e tanto altro ancora.

E che c’entra un gruppo Rock con la salute degli anziani?

val halen  tre condizioni  small gains  

Ed infine…

neurologo

Un formicolio o una perdita di forza transitori ed improvvisi ad un braccio vengono percepiti spesso come un problema circolatorio del braccio stesso, quasi mai del cervello del lato opposto! E si tratta spesso di un attacco ischemico transitorio (AIT) cerebrale, che può preludere ad altri attacchi oppure ad un ictus cerebrale dagli esiti disastrosi. In compenso, quasi tutti sanno che l’attacco ischemico transitorio, ma a livello cardiaco (angina pectoris), richiede spesso una corsa in ospedale. L’AIT cerebrale, purtroppo, non è doloroso… e la neurologia è molto spesso immaginata ma resta tuttavia poco conosciuta. Questi esempi riflettono dinamiche della stessa patologia, in fondo, e tuttavia conoscenze diverse di due apparati del nostro corpo.

Non va meglio per molte altre malattie neurologiche: quanti cittadini sanno cosa è la Miastenia per la quale è morto il miliardario Onassis? O che la diplopia (vedere doppio) dipende molto spesso da un problema neurologico e non oculistico, e che può essere proprio un sintomo iniziale di Miastenia? O conoscono la Poliradicoloneurite di Guillain-Barré di cui porta ancora i segni il regista Ermanno Olmi? O che una malattia di Parkinson può esordire con un rallentamento motorio di tutto o mezzo corpo, e senza tremori?

Pretendere di risolvere i casi complessi per via telefonica, via mail oppure in piedi davanti agli astanti di una conferenza, svilisce il vostro problema e il lavoro di chi cerca di continuare a realizzarlo alla vecchia maniera (tocca dirlo!) impegnandosi per almeno un’ora nella prima valutazione medica allo scopo di capire, prospettare una diagnosi e le relative soluzioni attraverso un itinerario collaudato dalle conoscenze e dall’esperienza.

E’ uno schema che in molti casi l’attuale sanità sembra avere smarrito quando non applica il “prendersi cura” limitandosi al “curare” guardando l’orologio, piuttosto che ampliare il compito sanitario anche all’informazione-formazione di pazienti e di familiari per coinvolgerli in una conoscenza adeguata delle problematiche e delle strategie farmacologiche e non farmacologiche, invitarli alla prevenzione, adoperando empatia, corretta comunicazione, giustificata larghezza del limite di tempo.

Nel particolare, vi porto qualche esempio.

  1. Un caso esemplare

Descrivo un caso clinico e umano accaduto nel 2014 che mi ha fatto ulteriormente riflettere e aiutarmi a sostenere questo indirizzo di rifiuto di soluzioni rapide e facili per situazioni complesse, che probabilmente non mi fa apparire simpatico a chi opta per la soluzione veloce e pensa che siamo maghi.

Sono stato contattato da un’amica siciliana che vive, come me, in Friuli. Ad un suo lontano familiare di 62 anni che abitava in un capoluogo della Sicilia era stata diagnosticata da due neurologi in loco una Demenza Fronto-Temporale (DFT) in quanto da qualche settimana l’uomo “appariva cambiato” nel comportamento e nelle abilità che possedeva.

I familiari hanno cercato di coinvolgermi per avere lumi sulla correttezza della diagnosi, inviandomi documenti clinici e lastre di risonanza magnetica, che non riuscivo a “vedere” bene” al computer. Ho fatto una scelta, e come altre volte ho sostenuto l’impossibilità di una diagnosi per manifestazioni così serie in assenza di una mia personale valutazione. Ho dovuto usare la forza, perché vado soggetto all’irresistibile abitudine a dire di si per una curiosità innata che mi fa imbarcare in casi complicatissimi. In compenso, e questo mi ha consolato, ho approvato la decisione dei familiari di rivolgersi ad un collega neurologo che lavora in una struttura sanitaria pubblica di Milano, conosciuto per la sua professionalità in merito al sospetto clinico,.

Il resto ed il finale li espongo in poche parole: ricoverato, gli è stata diagnosticata una Vasculite cerebrale, una “infiammazione” dei vasi cerebrali sostenuta da una malattia autoimmunitaria che colpisce vari organi, il LES (Lupus).

Sottoposto alle cure del caso, è deceduto tuttavia poche settimane dopo.

Le riflessioni che questa vicenda umana mi impone:

  1. Se avessi collaborato, di certo non sarei stato capace di pervenire alla diagnosi via mail e telefono!
  2. Avremmo perso altro tempo prezioso, e già se ne era perso tanto: una diagnosi tempestiva avrebbe potuto salvare quella vita…
  3. Esistono “altre” demenze oltre quelle conosciute e vanno sempre sospettate, soprattutto se l’evoluzione è piuttosto veloce: di questo e di altro (esami del sangue, del liquor, ecc.) avrebbero dovuto tener conto i due specialisti a cui la famiglia si era inizialmente rivolta.
  4. Infine, pazienti o familiari, da veri disperati, tentano comprensibilmente tutte le strade possibili! Vanno capiti ma nello stesso tempo informati e indirizzati.

Cosa aggiungere? Una delle possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra clinici e pazienti o comuni cittadini. I pazienti, in particolare, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli. E i cittadini, se adeguatamente informati, possono collaborare correttamente con i medici o, se serve, in qualche modo difendersi dalla malasanità. Dobbiamo cominciare ad accettare il fatto che le competenze in materia di salute e di malattia risiedono tanto nel ruolo medico quanto tra i professionisti non-medici che lavorano in ambito sanitario e sono vicini ai pazienti e alle loro famiglie, tra gli esperti di altri settori essenziali per migliorare la salute, e infine tra i comuni cittadini che operano nella società civile.

La realtà della salute, quindi, dovrebbe vedere con un compito da protagonisti, accanto alla figura sanitaria centrale, il medico, gli altrettanto essenziali ruoli sanitari dei professionisti non medici, fino ad arrivare al cittadino malato e alla sua famiglia, al cittadino sano.

Lo stato assistenziale, il welfare, conquistato nel XX secolo, sembra destinato a ridurre le proprie prestazioni sotto il peso della crisi economica attuale e dell’invecchiamento della popolazione. Per ovviare alle carenze nell’area sanitaria si dovrà necessariamente realizzare un progressivo coinvolgimento dei cittadini, i quali verranno invitati ad assumersi la responsabilità della salute propria e dei propri cari, evitando gli stili di vita nocivi (alimentazione scorretta, alcol, fumo, non aderenza alle terapie e alla collaborazione alla prevenzione, ecc.).

A questo proposito segnalo un editoriale dell’autorevole BMJ del 2013 dal titolo “Let the patient revolution begin” (Richards et al.) in cui si afferma che l’unica possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra medici e pazienti, perché questi ultimi, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli.

Con queste prospettive, ogni cittadino non dovrebbe smettere di informarsi adeguatamente, di imparare, aiutato a leggere e a studiare, in una forma necessaria di autodifesa. I dati sconvolgenti e recenti di un analfabetismo di ritorno in Italia, tuttavia non rendono per nulla allegri: può significare andare incontro al destino di un futuro in cui prevarranno ancora di più la scarsa informazione mista ad ignoranza, presunzione, inosservanza di norme, faciloneria, cinismo, ridotta prevenzione, abbandono di terapie necessarie, fragilità, e infine errori ed eventi avversi da farmaci (un’ altra area di sofferenza inutile e di consumo delle risorse sanitarie!), e infine al ritorno dei ciarlatani!

La soluzione è ANCHE responsabilità vostra!

Armato di pazienza, ho preparato lo scritto preconfezionato con cui ho cominciato questa pagina, buono per tutti, o quasi, che serve come risposta a richieste di diagnosi o cure “facili” attraverso domande dalla platea, o telefono o e-mail.

  1. Un addendum utile…

In verità mi è successo qualche volta di aver dato buoni consigli per telefono: è accaduto ad esempio nel febbraio 2016. Una mia amica mi ha chiesto di visitare il padre novantenne in buone condizioni generali fino a poche settimane prima: il medico curante riteneva che i suoi episodi di dispnea (difficoltà di respiro, che avevano cambiato il corso della vita dell’anziano e le sue abitudini, tra cui la decisione di non dormire più a letto con la moglie ma seduto sul divano…) fossero di origine psicologica. Ho risposto che se il problema era questo, forse era indicato uno psichiatra, in quanto sono un neurologo… ma, come sempre, non mi sono limitato al gelido e provocatorio consiglio che mira a far capire la differenza tra le due specialità. Di fronte all’idea del medico e all’insistenza dell’amica, in assenza di una mia personale valutazione di tipo generale più che neurologica, ho dettato una condizione: lo avrei visitato se un esame emogasanalitico (saturazione di ossigeno, ecc. nel sangue), fatto in giornata in Pronto Soccorso, fosse risultato negativo. E’ stato ricoverato d’urgenza per scompenso cardiaco con iniziale versamento pleurico…

Infine, ricordi ed esperienza. Era una pessima abitudine di qualche collega, più di quaranta anni fa, all’inizio della mia attività ospedaliera in neurologia, quando ci si occupava anche della “piccola psichiatria”: … l’abbiamo studiato diverse volte, non troviamo niente. Per noi è un nevrotico… Così parlava il chirurgo, o l’ortopedico o magari il cardiologo. Poi magari accadeva di scoprire un tumore del pancreas o un aneurisma aortico che creava problemi al midollo, o altro ancora…

A parziale giustificazione va aggiunto che non c’erano la TAC né la RM, anche se non tutte le malattie, lo ribadisco, si possono diagnosticare con gli esami di neuroimmagine!

Da allora ho imparato a non fidarmi sempre del sistema “abbiamo fatto tutto, per cui non resta da pensare che il problema sia psicologico”.

Un motivo in più per spingermi a valutare di persona, col mio tempo, la storia, la mente e il corpo di ogni persona che mi chiede un aiuto professionale.

È una MIA necessità ineludibile che va assolutamente rispettata! Per il mio ed anche per il vostro bene.

Dott. Ferdinando Schiavo

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