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Dott. Ferdinando Schiavo

Archivio Categoria: Presentazioni

Presentazione del libro “Il manuale della prevenzione del decadimento cognitivo” di Rinaldi e Bora

Pubblicato su 18 Settembre 2022 di Ferdinando Schiavo

Il manuale della prevenzione del decadimento cognitivo

di Manuela Rinaldi e Martina Bora. Edito (al momento, estate del 2022) dalla Regione Marche.

Per contatti: psico.manuelarinaldi@gmail.com

Il dramma della solitudine amara, dell’isolamento, dell’assenza di una rete familiare e sociale

L’ennesimo ritrovamento di persone in stato di mummificazione, stavolta una coppia di persone definite, a torto, “anziane” (66 e 72 anni): vivevano in un elegante quartiere residenziale, il Villaggio Primavera, a Udine. Ne ha dato notizia il 13 aprile 2022 il giornale il FRIULI e poi il resto della stampa. Assenti dalla vita di tutti gli altri dall’autunno precedente, titoli di coda, vuoti a perdere in una società sempre più distratta e incollata al benessere solitario del proprio ombelico.

Non è la prima volta che succede e non è stato stabilito neppure il record di trasparenza, di inappartenenza e di assenza ingiustificata sociale. Sta accadendo sempre di più nel nostro mondo ipercollegato via web e tuttavia in preda alla solitudine della ingiusta distanza. Aderisce alla cronaca di questo fine inverno un’altra scoperta solitaria e mummificata: per due anni Marinella Beretta è rimasta seduta sulla sedia del suo tinello, in una villetta alle porte di Como. Ha scritto Massimo Gramellini sul Corriere della sera: “Per due anni nessuno l’ha disturbata. Non un venditore di pentole, un vicino di casa, un parente alla lontana. Nessuno. Marinella era la solitudine fatta persona. Come tanti anziani nella sua situazione, aveva ceduto la nuda proprietà e tenuto per sé l’usufrutto. In un giorno imprecisato dell’autunno del 2019 si è seduta su quella sedia, dove un malore le ha staccato la spina. La morte istantanea che tutti sognano, la morte solitaria che tutti temono. Qualche mese dopo è arrivata la pandemia e i vicini hanno pensato che Marinella si fosse trasferita, ma evidentemente la conoscevano talmente poco da ignorare che non aveva altri affetti presso cui rifugiarsi. C’è voluto il vento di questi giorni per attirare l’attenzione non tanto su di lei, ma sugli alberi del suo giardino. Temendone la caduta, qualcuno ha chiamato il nudo proprietario, lui ha cercato Marinella e i vigili del fuoco hanno scassinato la porta, trovando sulla sedia del tinello quel che ne restava”.

Ma il terribile record italiano, per quanto io ne sappia, appartiene al prof. Lelio Baschetti, il cui cadavere è stato trovato nella propria abitazione fortuitamente (!) in seguito a un tentativo di scasso nel marzo 2018. Era «scomparso» da almeno 7 anni. I familiari pensavano che fosse in viaggio.

Il Giappone da qualche anno segnala il fenomeno delle morti invisibili dei dimenticati: con il termine kodokushi (letteralmente “morte solitaria”) indica la morte in solitudine di una persona. Le tracce sui pavimenti dei contorni biologici residui di ciò che era un tempo un corpo sono sconvolgenti.

Ha un avvio forse avvilente questa mia presentazione del libro LA COMBRICCOLA. IL MANUALE DELLA PREVENZIONE DEL DECADIMENTO COGNITIVO. Mi auguro sinceramente che non rechi danno alla lettura di ciò che segue, dei suoi contenuti avvincenti, positivi e propositivi che le due giovani brillanti professioniste, due mie amiche, Manuela Rinaldi e Martina Bora, hanno sviluppato sul campo, negli anni. Nel libro, nei loro democratici e generosi suggerimenti da “copiare”, si coltiva invece la speranza.

Ci siamo imposti di nutrire il diritto alla speranza in uno scenario di malattie che ne è dolorosamente avaro ed è accaduto che la scienza ci ha ripagati! Abbiamo gioito per il recente accumularsi a ritmo incalzante di evidenze scientifiche che ci esponevano le scappatoie possibili da un destino di fragilità e di demenza: numerose ricerche, infatti, hanno collegato da tempo la solitudine ad un’accelerazione della fragilità, nonché ad ipertensione, cardiopatie, ictus, depressione, alterazioni immunitarie e, appunto, demenze.

La formazione apposita di una commissione di esperti internazionali nel luglio 2017 (1) ha pubblicato sull’autorevole rivista scientifica The Lancet i risultati di un’ampia ricerca: il lavoro ha identificato in tutto nove fattori di rischio (modificabili!) da combattere per tentare di ridurne i casi di demenza, Alzheimer soprattutto, di oltre un terzo (circa il 35%). Insomma, ad un precedente elenco di fattori di rischio noto dal 2011 che ne segnalava sette, gli esperti hanno aggiunto due “nuovi”: la sordità in età media (e anziana) e la solitudine “non desiderata”, quella che preferisco definire con l’aggettivo amara per distinguerla dalla beata solitudo, ovvero quella scelta da chi si trova in personale equilibrio psicofisico nel vivere da solo.

Da quel momento diabete mellito, ipertensione arteriosa e obesità in età adulta, fumo, depressione, bassa scolarità, sedentarietà avevano ufficialmente altri due compagni di sventura, pur sempre modificabili!

I due nuovi fattori di rischio, peraltro, un po’ come i precedenti, apparivano facilmente associabili tra loro e, appunto, con gli altri. Un esempio: la sordità, un fenomeno progressivo e spesso silente e del quale gli individui sono a volte inconsapevoli a differenza di quanto notano invece conviventi e conoscenti, crea difficoltà a entrare in comunicazione con gli altri provocando di conseguenza un effetto negativo considerevole sulla vita fisica ed emotiva, inducendo insoddisfazione e un minor coinvolgimento nelle attività sociali e nei rapporti interpersonali, tale da condurre a isolamento e spesso ad una maggior incidenza di depressione, un’altra condizione che rientra, come già visto, nell’elenco dei fattori di rischio per demenze.

In un successivo lavoro del 2020 dello stesso gruppo (2) sono stati aggiunti altri tre fattori di rischio modificabili: alcol, traumi cranici e inquinamento atmosferico.

Da tempo, però, coltivo una sensazione basata su dati scientifici e sulla mia esperienza: bisognerà aggiungerne altri, come la qualità e quantità di sonno, lo stress cronico, i disturbi visivi, e infine alcune categorie di farmaci, la mia personale ossessione, in particolare quelli ad azione anticolinergica, ovvero “contro l’acetilcolina”, un neurotrasmettitore essenziale a tutto l’organismo, cervello (e memoria) compreso. Tra queste circa 600 sostanze di normale prescrizione, vere mine vaganti che servono a curare malanni diversissimi, ci sono nomi noti a tutti, come il Buscopan.

I farmaci non devono essere demonizzati ma usati in maniera faticosamente appropriata! A chi mi scrive, dopo avere consultato il mio sito, “Lei che è contro i farmaci…” ho una risposta pronta, non devo fare altro che un copia\incolla che inizia con “Solamente gli imbecilli possono essere contro i farmaci… I farmaci vanno usati in maniera appropriata…”.

Non posso soffermarmi, ovviamente, a commentare singolarmente, a parte la solitudine, ogni singolo fattore di rischio. Nel bel sito di Lidia Goldoni www.perlungavita.it potete trovare tre miei articoli sulla Prevenzione della fragilità e delle demenze, nonché altri due sul tema della solitudine. Vorrei però raccomandare la lettura dell’esperienza sanitaria di pochi anni fa del professor Richard Charles Horton, caporedattore dell’autorevole rivista scientifica The Lancet: https://perlungavita.it/argomenti/operatori-e-servizi/1451-perche-i-medici-non-toccano-piu-i-pazienti-riflessioni-all-epoca-del-coronavirus-e-della-giusta-distanza.

L’ho scritto durante il periodo di lockdown del 2020 e, dunque, in un momento di “abbracci mancati”, tuttavia non mancando di segnalare la rarefazione – iniziata già da tempo! – di vecchie consuetudini (detto con delusa ironia) come il palpare una pancia, una qualsiasi parte del corpo a scopo diagnostico. Aggiungerei anche a scopo “curativo” in quanto toccare un corpo, accarezzarlo, abbracciarlo, provocano tra l’altro un aumento di ossitocina, la sostanza chimica basilare per la connessione sociale, un ormone che raggiunge attraverso il sangue e collega tra loro vari organi, un ormone della calma e della tranquillità, dell’armonia sociale, dell’intimità. Ma è anche un neurotrasmettitore del nostro sistema nervoso autonomo, quell’apparato complicato e diffuso nel nostro organismo che “non comandiamo”, che ci fa battere il cuore, aumentare la pressione, arrossire, sudare ed altro ancora.

Senza inquietarvi più del dovuto, ma la tentazione è forte, rientro docilmente nel territorio della speranza “responsabile”: tutti i fattori di rischio sono definiti modificabili se riconosciuti tempestivamente ed affrontati in maniera corretta. E’ uno degli scopi di questo libro il cui il tema conduttore è legato alla lotta alla solitudine e a ciò che può comportare.

Come definirla? Si tratta di uno stato emotivo legato alla percezione dell’isolamento. Non è classificata come malattia o disturbo mentale ed è distinta da altri stati mentali come ansia e depressione, ma può portare comunque a sentimenti di disperazione, a noia, ad un atteggiamento negativo verso sé stessi e gli altri. Rappresenta un problema per la salute pubblica che impatta sugli anziani da diversi importanti punti di vista, ma non può essere curata tramite farmaci. Ma per quanto noi medici non possiamo trattare la solitudine farmacologicamente, una soluzione potrebbe consistere nel non dimenticarci delle cosiddette prescrizioni sociali, ossia modalità di indirizzo a risorse per il supporto sociale, come il volontariato, le visite a musei locali o a gallerie d’arte, i gruppi di cammino e un infinito altro ancora.

Tanto più che, negli incombenti tempi di magra per la nostra sanità pubblica, la solitudine amara é un importante fattore che contribuisce allo sfruttamento delle risorse sanitarie in vario modo, non ultimo a causa dell’incremento della ricerca del contatto sociale mediante le visite mediche. Tasto dolente quello del rapporto medico paziente o dell’attuale “medicina della fretta”. Si è passati da un medico che sapeva un po’ di tutto alla frammentazione specialistica che peraltro un medico (chi?) dovrebbe coordinare nella moltitudine delle competenze specifiche, ricordandosi ogni tanto di riordinare quella che amo chiamare con sarcasmo “la terapia immutabile” in un soggetto, l’anziano, che è di norma variabile nelle condizioni di salute ed ha necessità, per questo motivo, di una revisione del suo stato fisico e mentale nonché delle terapie farmacologiche, un po’ come facciamo periodicamente con la nostra autovettura. Ma con intervalli molto più ravvicinati, responsabili!

Per contrastare la solitudine appare fondamentale, in definitiva, investire con ampia facoltà di agire con diverse strategie, utilizzando fantasia ed empatia. E’ il filo conduttore dell’esperienza tradotta in questo progetto, in questo libro.

“Le società che non sono state in grado di riparare le anemiche reti sociali e le cure non coordinate causate dal Covid-19 sono assolutamente incomplete” scrive Lauren Gilstrap commentando pochi mesi fa i dati sulle demenze negli USA (3). Solitudine e Covid hanno creato un mondo a parte, un prezzo altissimo pagato dalle persone fragili e dalle loro famiglie, e meriterebbe uno spazio a sé per un ampio commento.

Hanno fatto bene le due autrici di LA COMBRICCOLA ad attingere alla memoria delle famiglie ramificate e caotiche dell’Italia contadina, le ampie “famiglie orizzontali”, al cui interno le solitudini si sopportavano e si accudivano a vicenda. La famiglia moderna, spesso “in verticale” (immaginate una sessantenne che ancora lavora, bada ai genitori fragili o malati, al marito, ai figli, magari pure ai nipoti) è ridotta progressivamente a un pugno sempre più stretto. Alcuni dati dell’ISTAT del 2021 immaginano “come saremo nel 2070”, parlano di incubo demografico, oscillante tra la sempre più bassa natalità e la corsa prometeica della longevità, concludendo che saremo di meno (- 12 milioni?), con più anziani e con famiglie sempre più rimpicciolite! L’ISTAT, impietosamente, descrive un futuro in cui più di una famiglia su tre sarà composta da una persona sola (famiglie unifamiliari) e le coppie senza figli potrebbe sorpassare quelle con figli (magari solo uno…).

Scrivono Manuele e Martina: “Il gruppo sociale che si instaura crea poi un contesto protettivo e terapeutico contro la fragilità percepita nell’anziano: in un gruppo in cui ognuno presenta iniziali disturbi di memoria o lievi disabilità fisiche, proprio in virtù del fatto che è una situazione condivisa, questa diventa normalità e il concetto di “disabilità” si abbatte…  La forza del gruppo sta proprio in questo: la condivisione della fragilità, il ritrovarla negli altri per poterla trasformare poi in semplice e normale situazione condivisa.

Scendendo nei particolari: “Le attività della combriccola agiscono direttamente sui fattori protettivi e comportano un potenziamento della riserva cognitiva…  L’isolamento, come la depressione, mimano le iniziali manifestazioni cliniche del deterioramento cognitivo, tanto da rendere insidiosa anche la diagnosi differenziale, e rappresentano dei fattori di rischio per la slatentizzazione della patologia… Il vantaggio di questa metodica è che permette di intervenire su domini cognitivi specifici, individuati tramite valutazione, con un approccio rafforzativo/di mantenimento oppure compensativo, proprio delineando i meccanismi cerebrali… La Combriccola é socializzazione, esercizio fisico ed allenamento cognitivo che sono l’equipaggiamento più efficace contro un invecchiamento patologico.

Desidero ricordare che Manuela e Martina sono affiancate per la parte “fitness” da Lorenzo Pierpaoli. Non è un compito marginale, anzi. L’attività fisica ricreativa possiede un ruolo centrale nell’ambito della gestione del tempo libero degli anziani, e questo sostanzialmente per due motivi. Il primo è dovuto ai benefici che comporta un ottimale stato di efficienza fisica, il secondo è determinato dalla possibilità che offre l’utilizzare il tempo in movimento: un atteggiamento positivo verso la vita, l’incontro con altre persone con cui condividere un interesse e la possibilità di intrecciare e consolidare relazioni sociali positive (a loro volta fattori protettivi). Sono molte le attività motorie che rispondono a questi due requisiti. Sport ideali sono nuoto, ciclismo, ma può bastare la camminata, magari “veloce” (se allenati) e con le racchette: quando si vuole circoscrivere il campo ad attività fisiche accessibili a tutti, facili da eseguire, non costose e praticabili durante tutto l’arco dell’anno, la scelta cade sul semplice camminare. Camminare è indubbiamente l’attività fisica ideale in quanto non richiede attrezzature o abbigliamento particolari, può essere praticata da (quasi) tutti, si svolge all’aperto (e spesso col beneficio delle radiazioni solari sulle ossa, sull’umore, ecc.), condizioni climatiche permettendo, non fa perdere tempo nei preparativi, non sovraccarica la colonna vertebrale e le articolazioni degli arti inferiori (se il peso corporeo non è eccessivo…).

Infine, un ulteriore elemento di rilievo, di cui è ricca la letteratura scientifica (e certamente non per intervento della lobby delle scarpe!): l’attività motoria ricreativa possiede la proprietà di scatenare certi fattori di crescita neuronale (ad esempio il BDNF) e di “curare” persino la depressione.

Da quando ho pubblicato Malati per forza (4) mi capita di suggerire, mentre scrivo una dedica ai futuri combattenti civili (è una guerra senza armi quella di coloro che lavorano nella complessità e desiderano con forza debellare le “malattie da farmaci” cominciando a conoscerle!), di iniziare la lettura del libro dalla parte “meno triste”, dai suggerimenti finali per prevenire la fragilità e le malattie neurodegenerative, con un iniziale “Fatti non foste a viver da seduti”, parafrasando Dante.

L’esercizio è un “farmaco” che opportunamente somministrato, previene le malattie croniche da inattività e ne impedisce o posticipa lo sviluppo, garantendo considerevoli vantaggi sia alle singole persone che alla loro famiglia e al sistema sanitario, riducendo ospedalizzazioni e uso di farmaci. Camminare in compagnia stimola la comunicazione e la discussione. Alcuni studi suggeriscono che sia gli anziani sani, sia quelli affetti da lievi problemi cognitivi, ricordano le parole meglio dopo avere svolto alcuni esercizi per la memoria. Tuttavia, in base ad altri lavori, gli stessi miglioramenti si ottengono anche avendo una semplice conversazione. Sembra pertanto che l’interazione sociale (ne scriverò fra poche pagine) garantisca gli stessi risultati degli esercizi di natura cognitiva. Camminare da soli offre invece l’opportunità di riflettere e di “creare” idee e collegamenti tra fatti, spesso con sorprendente lucidità. Portatevi carta e penna!

Andare a passeggio è la forma ideale di esercizio fisico, non costosa e altamente efficace nel promuovere la propria salute. Oltretutto, è un’attività inclusiva, che permette alle famiglie, agli amici, di avere un interesse in comune, di comunicare (!) e di stare insieme all’aria aperta. Intraprendere con costanza un’attività fisica idonea serve, oltre al resto, a conoscere il proprio corpo, ad esplorare con curiosità l’ambiente, a mettersi in gioco, a prendersi cura di sé e dedicarsi tempo ed energie. Informare, educare, sollecitare ed accrescere la motivazione a volersi bene per poi ottenere una piena adesione al programma motorio, occupandosi del proprio benessere, è un obiettivo alla portata di molti, da mettere in atto attraverso un cambiamento dello stile di vita.

L’attività fisica ricreativa andrebbe estesa al caregiver, la persona che si prende cura e assiste un malato, in quanto attenua le conseguenze dello stress, tra le quali depressione e ipertensione arteriosa. Il caregiver svolge un ruolo essenziale e deve essere aiutato e sostenuto nel suo impegno quotidiano, magari consentendogli di avere qualche ora libera per pensare a sé e alla sua salute. Ammalarsi per “eccesso di sacrificio”, duri al pezzo, non è utile a sé e agli altri.

In questi ultimi anni, diverse colleghe e colleghi “non medici” hanno richiesto, bontà loro, che scrivessi la prefazione al loro libro (5, 6, 7). Il motivo conduttore dei tre testi consiste nel proporre, prospettare, insegnare ad applicare le Terapie Non Farmacologiche (TNF), ovvero le strategie per affrontare i comportamenti altamente disturbanti nelle persone malate di demenza. Questo contributo di Manuela e Martina aggiunge un ulteriore bagaglio di opportunità, con dimostrata efficacia scientifica, per prevenire o almeno per allontanare nel tempo il grigio della mente. I deludenti farmaci “per la memoria” e gli abusati psicofarmaci al momento rappresentano solamente la ruota di scorta.

Ho un obbligo etico, due dediche per chiudere con riconoscenza il finale di questa presentazione. La prima è per Marco Trabucchi e Diego De Leo dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria. Nell’editoriale apparso nel primo numero del 2018 di Psicogeriatria (8), annunciando per il 15 novembre 2018 “End loneliness”, la Prima Giornata Nazionale contro la Solitudine dell’Anziano, hanno scritto: “È in ogni modo significativo che molti, con sensibilità e responsabilità diverse, si stiano impegnando per trovare risposte… Quasi nove milioni di italiani hanno paura di restare soli al momento del bisogno. Gli anziani sono i più insicuri di avere qualcuno che li sostenga in caso di necessità… Le dinamiche che portano l’anziano a vivere senza il supporto di altri sono complesse e quasi mai hanno una sola causa. Bauman ne l’Ultima Lezione (Ed. Laterza) ha sostenuto che il nostro tempo è governato da contingenze, accidenti e coincidenze. Su questa linea noi ci proponiamo un intervento equilibrato a fronte di dinamiche certamente di portata planetaria, cioè una prassi che qui ed ora va alla ricerca delle piccole cose che si possono fare e che nel loro insieme portano a qualche risultato… ottenendo così tanti small gains efficaci nel lenire le grandi paure del nostro tempo, all’interno delle quali la solitudine esercita una funzione di continua erosione del benessere”.

Ricordo l’anno in cui le persone smisero di guardarsi negli occhi. Non ci fu un grande cambiamento demografico. Sembrava semplicemente che la gente avesse rinunciato a stabilire rapporti con gli altri. Oggi questa città è uno dei luoghi più solitari della Terra. Le persone sono vagamente paranoiche, ipersensibili e interessate soltanto a se stesse. I redditi sono alti, il costo della vita astronomico, ma tutti hanno debiti, vivono in case da milioni di dollari e mangiano pizza da asporto. Se poi arriva il divorzio, il marito va via di casa e va a vivere sulla sua barca. E-mail di un californiano (9).

Con queste parole desidero ricordare John Cacioppo che ci ha lasciati da poco.

Piccola bibliografia

  1. Gill Livingston et al. Dementia prevention, intervention, and care. The Lancet Commission. Vol. 390 July 19, 2017.
  2. Gill Livingston et al. Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission. The Lancet, Vol 396, august 2020.
  3. Lauren Gilstrap et al. Trends in Mortality Rates Among Medicare Enrollees With Alzheimer Disease and Related Dementias Before and During the Early Phase of the COVID-19 Pandemic. JAMA Neurol. Published online February 28, 2022.
  4. Ferdinando Schiavo. Malati per forza. Gli anziani fragili, il medico e gli eventi avversi neurologici da farmaci. Ed. Maggioli 2014
  5. Ferdinando Schiavo. Prefazione del volume Il corpo nella demenza. La terapia espressiva corporea integrata nella malattia di Alzheimer e altre demenze. Elena Sodano. Ed. Maggioli
  6. Ferdinando Schiavo. Prefazione del volume Viaggiatori Controcorrente. Percorsi di benessere non farmacologico. Maria Silvia Falconi, Luca Lodi, Valentina Molteni, Orlando Prete. Editrice Dapero 2017.
  7. Ferdinando Schiavo. Prefazione del volume Maresciallo, il suo caffè. Sette storie di Demenza “Straordinaria”. La cura della relazione. La relazione che cura.. Annapaola Prestia. Edizioni Publiedit 2021.
  8. Diego De Leo e Marco Trabucchi: La solitudine dell’anziano. Un impegno forte per l’AIP. Psicogeriatria 1, gennaio-aprile 2018.
  9. John Cacioppo e William Patrick. Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro. Il Saggiatore 2013.
Pubblicato in Presentazioni |

Presentazione del libro “Viaggiatori controcorrente”

Pubblicato su 21 Novembre 2021 di Ferdinando Schiavo

Viaggiatori Controcorrente. Percorsi di benessere non farmacologico. Dapero Edizioni

di Maria Silvia Falconi, Luca Lodi, Valentina Molteni, Orlando Prete

La prima volta che a un convegno vidi all’opera la “banda dei quattro” (ma stavolta Mao non c’entra!) rimasi affascinato dalla loro comune passione che, singolarmente e nella forza del gruppo e del reciproco spirito di collaborazione, traspariva dietro ogni discorso, ogni esempio, ogni aiuto vicendevole nel compito di raccontare il loro lavoro.

A presentare il loro primo libro hanno chiamato me, un vecchio neurologo dei vecchi, appassionato a sua volta, direi ossessionato, dall’uso responsabile dei farmaci nelle persone vulnerabili, e quindi con uno sguardo attento alla popolazione anziana sempre più numerosa e ai possibili traguardi di benessere attraverso mezzi non farmacologici.

Vecchi sbagliati si diventa da bambini, avevo scritto pochi anni fa in Malati per forza per stimolare il lettore a una tempestiva prevenzione utile ad allontanare magari di un decennio lo spettro della fragilità.

Tuttavia, vecchi sbagliati si può diventare anche per responsabilità altrui! Oramai sono numerose le testimonianze scientifiche sull’uso scorretto, inopportuno, a volte sconsiderato e superficiale dei farmaci proprio da parte di coloro che peraltro ne assumono diversi a causa delle varie patologie che li accompagnano con l’avanzare dell’età. Lo scomodo tema delle “malattie da farmaci” va affrontato ovviamente senza demonizzarli e senza condannare in blocco l’operato della classe medica, la quale tuttavia non risulta sempre preparata ad affrontare i piccoli e i grandi guai dei vecchi e la usuale complessità che accompagna le loro condizioni cliniche, e non sembra del tutto incline ad accettare l’idea di scuola gerontologica che la persona anziana è ben diversa da un adulto giovane. L’utilità, la necessità dei farmaci va ribadita con forza in questa epoca di false verità, quelle che in maniera superficiale mettono in dubbio certezze scientifiche e persino il buon senso,  purché essi vengano usati con scrupolo e accompagnati da una corretta informazione, dai controlli ravvicinati necessari e infine dalla fiducia e collaborazione di chi li riceve.

In contesto attuale, nello scenario dominato dall’invecchiamento progressivo della popolazione e dall’incremento delle patologie neurodegenerative, la condizione che porta le persone anziane (o meno anziane…) ad una qualche forma di demenza conduce quasi sempre all’uso di farmaci. Possono essere gli inibitori delle colinesterasi (I-ChE) e la memantina che agiscono prevalentemente sulla componente cognitiva (e non solo) ma unicamente nella condizione fortunata in cui le persone malate di demenza siano responder, ovvero ottengano dei miglioramenti clinici; oppure gli psicofarmaci di vario tipo per sedarle, tranquillizzarle, renderle meno aggressive o depresse, curare le loro strambe idee di furto o il passaggio di allucinati fantasmi.

Non mi diverto a demolire l’innocente pregiudizio di un familiare (e a volte di un collega medico) che mi sta di fronte, stanco e allarmato dall’affaccendamento di chi è preda della demenza e gli vive accanto, quando affermo che persona agitata + psicofarmaco non fa sempre = persona calma e sorridente! In pubblico sostengo e in modo lapidario che le strategie non farmacologiche “valgono 95”, mentre possono essere utili gli psicofarmaci nel restante 5 per cento. A quel punto osservo spesso facce e  sentimenti di soddisfazione da parte delle figure professionali coinvolte nella cura delle persone con demenza ma non abilitate a prescrivere farmaci. Sono tante, insostituibili e preziose nel pesante compito comune di alleviare un dramma.

Certo, nell’epoca liquida in cui qualcuno cerca di farci credere che basta una notte per apprendere l’inglese e che sembra scomparsa la parola sacrificio, si fa fatica a spiegare che non esiste la sicura efficacia di uno psicofarmaco che… “me lo faccia dormire di notte, ma che di giorno sia sveglio e pimpante”… quando invece serve in modo prioritario uno sguardo attento alle dinamiche che hanno portato ad un certo disturbo comportamentale deflagrante e che ci informi sullo stato di coscienza della malattia da parte di chi soffre di demenza (quando non esiste per niente, il compito del caregiver è davvero tragico), senza dimenticare di approfondire i contorni umani e sociali di “quella” persona con demenza, i rapporti affettivi o semplicemente logistici con “quella” sua famiglia, e sempre che ci siano dei familiari…

Significa non affidarsi come primo gesto curativo alla via ritenuta semplice, rapida e all’apparenza fruttuosa, lo psicofarmaco, ma al cammino concretamente più complicato che si realizza attraverso interventi non farmacologici (INF). Per metterli in atto serve ascoltare, capire, imparare e poi tentare gli approcci ritenuti adatti. Non esiste una soluzione facile per ogni condizione e ogni approccio deve essere provato, elaborato ed erogato su misura, “tailorizzato”, come in sartoria.

Nel libro si discute, appunto, di approcci adatti. Nell’introduzione le due autrici e i due autori scrivono che in questo difficile compito non si improvvisa:… far chiarezza in un panorama professionale che vede una moltitudine di approcci detti non farmacologici e  non sempre guidati da buone prassi e metodo. E aggiungono: …non ci accontentiamo del fatto che la persona anziana non manifesti (o riduca) quel tal disturbo comportamentale ma miriamo al suo benessere… dando priorità alla relazione come tramite per favorire il benessere di entrambi i soggetti coinvolti.

Mi piacciono i combattenti e quelli all’apparenza un po’ eretici e controcorrente, ma dalle idee e dalle esperienze chiare!

Così, da veri entusiasti, hanno tracciato un percorso da seguire per prendersi cura delle persone con demenza attraverso la Terapia della bambola, la Musicoterapia, la Terapia dei viaggiatori e infine la Pet Therapy. Ne è venuto fuori un libro di professionisti che amano prendersi cura delle persone, piuttosto che semplicemente accontentarsi di curarle, e magari con un uso ponderato e giustificato di psicofarmaci da parte di medici illuminati e collaborativi. Perché curare può rivelarsi solamente un arido esercizio costruito con iter e formulette da seguire secondo linee guida, con strategie che non sempre rassicurano se non sono ben coniugate con l’umano ascolto, l’empatia, la buona informazione.

I quattro controcorrente hanno creato un ponte di comunicazione possibile con le persone malate di demenza e in questo sfondo di complessità (a volte di colpevole sottovalutazione sulle ali del “razzismo dell’età”, il pericoloso ageismo) stanno lavorando da anni per costruire ponti, non certo a scavare fossati tra “noi e loro”, i medici e i non-medici, ponti di comprensione e di comunicazione ancora possibile in una rete composta da onesti artigiani della salute.

La musica che ti ricordi: rubo questo titolo a Lara Rigotti che ha pubblicato un interessante articolo sul tema nel numero di agosto di UomoCittàTerritorio. E a seguire una citazione di Schopenhauer riportata da Oliver Sacks in Musicophilia (Adelphi, 2007) che mi ha ricordato Eloisa Stella nel suo recente www.novilunio.net: “La profondità inesprimibile della musica, così semplice da comprendere e allo stesso tempo inspiegabile, è dovuta al fatto che riproduce tutte le nostre emozioni più intime del nostro essere, ma in maniera completamente estranea alla nostra realtà e alla sua sofferenza… La musica esprime solo la quintessenza della vita e i suoi avvenimenti, mai gli eventi stessi”.

La musica è legata indissolubilmente ai nostri ricordi e “si accumula” in aree del nostro cervello che le varie demenze coinvolgono in genere tardivamente. Fa parte integrante delle nostre emozioni, è un linguaggio universale. L’armonia, la musica è certamente fonte di benessere mentale e generale. La musica può essere utile a migliorare o recuperare funzioni cognitive, emozionali, sociali, purché vengano rispettate certe condizioni che Maria Silvia ha segnalato in uno spiritoso ed utile “bugiardino”.

Invecchiare in armonia. Rumori, suoni, musica è il tema 2017 del Centro Studi Alvise Cornaro di Padova, a completamento di un ciclo di riflessioni sui sensi nella vecchiaia che ha visto coinvolti negli anni precedenti la vista, il gusto a tavola, l’udito, a testimoniare una nuova attenzione verso i nostri organi di senso. Ben fatto, poiché tra i fattori di rischio oramai appare assodato il ruolo che lega i deficit sensoriali più comuni in tarda età, soprattutto quelli che comportano la riduzione severa o la perdita di vista e udito, allo sviluppo di demenze e di altre forme di disabilità croniche “di contorno”. Siamo attorniati, minacciati dal rumore. Ovunque, anche nei nostri ospedali e nelle nostre RSA! E il rumore non è solamente un fattore di rischio di logoramento dell’apparato acustico ma contribuisce alle alterazione dell’architettura del sonno e della salute cardiovascolare e cognitivo-comportamentale. Finalmente, una commissione internazionale di esperti voluta dalla rivista Lancet ha identificato in tutto nove fattori per ridurne i casi di demenza, Alzheimer compreso, di oltre un terzo (circa 35%). Pochi mesi fa, sul numero di luglio, Gill Livingston ed altri 23 esperti internazionali hanno aggiunto, al preesistente elenco noto dal 2011 che ne segnalava sette, due “nuovi” fattori di rischio per demenze,  la sordità e la scarsa socializzazione: ora diabete mellito, ipertensione arteriosa e obesità in età adulta, fumo, depressione, bassa scolarità, sedentarietà hanno altri due compagni di sventura! I due “nuovi” fattori di rischio in realtà sono noti da anni a chi come il sottoscritto si occupa della fragilità degli anziani e tuttavia solo adesso hanno ottenuto la meritata ufficializzazione. Adesso aspettiamo che vengano riconsiderati altri fattori di rischio: la severa riduzione della vista e la qualità del sonno, appunto, ma anche l’inquinamento atmosferico e, infine, tema a me caro, i farmaci. Su tutti questi altri aspetti sono emerse nel tempo, anche  recentissimo, prove scientifiche della loro significatività.

E comunque, più musica e meno rumore!

Il viaggio e la fuga. Il viaggio genera ricordi ed emozioni, rappresenta senza dubbio anche  un momento di fuga (controllata) dal posto in cui si trova l’ospite, in genere una struttura doverosamente chiusa, una RSA o un diurno. Spesso è una fuga verso casa, un amaro ritorno al passato recente o più spesso lontano, verso “quella” casa natale, il luogo degli affetti, la struttura “emotiva’’ che lo ha accolto quando è venuto al mondo, dove avrà fatto la prima esperienza di essere amato e accudito da qualcuno, forse come non gli è più capitato durante il resto della vita. Il viaggio virtuale è un tenero omaggio al passato ed è creato da amara nostalgia.

Il finto scompartimento di un treno può anche favorire forme di dialogo con operatori o con gli stessi (a volte increduli) familiari; consente di sviluppare progetti di stimolazione cognitiva centrata sulla memoria autobiografica e di conoscere meglio il viaggiatore e la sua storia, di aiutarlo quando è preda di insostenibili fenomeni di wandering, il disturbo del vagabondare che caratterizza le fasi tardive delle demenze.

Il tempo scandito di questo treno immaginario, la sua musicalità che ben conosciamo e i panorami che offre guardando dal finestrino, riescono invece a riportarlo indietro, in un altro tempo ritmato della memoria. Il viaggio è anche musica.

Luca e Orlando affermano che “Il sistema esploratorio è sempre attivo in noi, è necessario ai fini dell’adattamento, soprattutto quando le circostanze cambiano” e rafforzano questa verità dettata dalla biologia umana citando Anne Carson “L’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso”. E per la prima volta, dopo anni di approfondimento, questa terapia trova una nuova accezione spostando il focus dal viaggio all’accompagnatore: ecco nascere la Terapia dei Viaggiatori!

Mi vengono in mente degli aforismi che ho raccolto nel tempo. Di questi che propongo purtroppo non conosco gli autori: il primo è “Le utopie sono come l’orizzonte: più cammini per avvicinarti e più si spostano in avanti. Servono però per continuare a camminare”. L’altro sembra parlare alle nostre esperienze con le persone malate di demenza: “Sono i miraggi a muovere la carovana”.

Il potere terapeutico dell’accudimento: la bambola e il cane.

Una bambola può trasformarsi da semplice giocattolo a strumento terapeutico: si tratta di bellissime bambole (“empathy dolls”), create appositamente per stimolare e favorire l’espressione delle emozioni. Il racconto di Valentina inizia con un richiamo alla mia terra, la Sicilia, attraverso una “picciridda”, una bambola che viene accolta con amore da Antonio e riporta la calma nella struttura. Che io sappia, lei è stata la prima in Italia a riflettere e studiare la rilevanza del sistema di attaccamento/accudimento che si attiva nella relazione tra persona affetta da demenza e bambola. Mi ha confessato tempo fa: “Noi non ci accontentiamo del fatto che funzioni e porti beneficio ma, essendo umani esploratori, andiamo alla ricerca del senso profondo che ci mette in connessione diretta con l’esperienza che sta facendo il destinatario del nostro intervento”.

Le caratteristiche delle bambole adatte alla terapia creano stimoli e sensazioni che percorrono vie ancestrali e raggiungono centri nervosi che ci accomunano ai nostri antichi progenitori, in aggregati di neuroni funzionali all’elaborazione degli istinti e delle emozioni, in grado di sopravvivere persino alla distruzione creata da una demenza quando arriva allo stadio severo.

Vivere come testimoni il successo di una relazione tra persona severamente malata e bambola induce allo stupore. “Tratti di umanità baluginano continuamente, come la piccola fiamma di un lumicino. E’ la vita che dimostra così di essere invincibile”. Così Marco Trabucchi ha citato Salvatore Mannuzzu.

Anche l’Alzheimer’s Society della Gran Bretagna nel marzo 2014, tra i punti cruciali del suo A good life with dementia, ha sostenuto con forza la capacità delle persone con demenza di avere emozioni e si è soffermata sui residui valori di identità, di felicità e persino di realizzazione. Che immenso valore possiede l’avere creato un senso di fiducia, di utilità, di responsabilità, nel momento stesso in cui viene affidata una bambola, un “bambino”? I giochi, come costruzione della realtà, ci riconducono sia all’innocenza dell’infanzia, sia alle responsabilità di adulti.

Infine, il terapista a quattro zampe!

Ho sempre avuto e amato i cani e ricordo ancora con nostalgia i particolari di tutti e le gioie, anche qualche piccolo guaio, che mi hanno regalato. Attraverso la mia esperienza con loro,  sono portato a capire istintivamente (e sì, qui possiamo parlare liberamente di istinti) ciò che possono regalare a una persona smemorata, confusa, isolata, depressa, apatica. Donano allegria e nello stesso tempo responsabilità dell’accudimento, aiutano al recupero di competenze; e poi regalano stimoli, pensieri buoni e guaiti di gioia, pelo caldo, movimento e passeggiate felici.

Scrivono gli autori: “Il cane non giudica. Se sbagliamo un esercizio non ci rimprovera, se ci cade un biscotto lo raccoglie e comunque è in grado di avvicinarsi ad una persona estremamente compromessa”. E’ noto sin dai tempi antichi come la vicinanza di un animale gratifichi e rassicuri l’essere umano: avere un animale come compagnia a cui badare allontana la solitudine.

Nel film di Pupi Avati Una sconfinata giovinezza il protagonista (malato di demenza, impersonato dall’attore Fabrizio Bentivoglio) torna sulle tracce della sua infanzia e va a cercare un impossibile incontro col suo cane di allora in quei boschi familiari: ma ad un certo punto il cane appare e corre allegro con lui tornato ragazzino. Nell’ultima sequenza del film, le loro figure felici nella corsa sfumano. E infine scompaiono.

Ferdinando Schiavo

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Presentazione del libro “Maresciallo il suo caffè”

Pubblicato su 21 Novembre 2021 di Ferdinando Schiavo

MARESCIALLO, IL SUO CAFFE’. SETTE STORIE DI DEMENZA “STRAORDINARIA”

Di Annapaola Prestia. Publied Edizioni

Inizia con la dedica al figlioletto, ed è già un abbozzo di scambio intergenerazionale, questo appassionante libro di Annapaola Prestia, e prosegue con sette storie che fanno da filo conduttore per un percorso che si snoda tra i diversi modi umani e nello stesso tempo scientifici del prendersi cura di una Persona con demenza. Sette racconti frutto della personale esperienza professionale dell’autrice in un diurno, ricchi di emozioni e resi straordinariamente didattici poiché ognuno trasuda curiosità (Annapaola continuerà ad imparare fino a 90 anni, ne sono sicuro!), empatia, competenza, voglia di risolvere e portare a termine decorosamente il proprio compito contro un nemico invadente e progressivo. Le vicende umane diventano l’occasione per discutere di Terapie Non Farmacologiche (TNF) – si badi, nessuna è in conflitto con un’altra – a scapito (per fortuna!) della soluzione facile, lo psicofarmaco, la scelta non sempre idonea a far fronte all’arcobaleno mutevole dei problemi comportamentali.

Da anni – e ora mi viene confermato da questo suo testo – sento di avere in comune con Annapaola la voglia di lottare contro gli stereotipi, i pregiudizi, la zavorra dei luoghi comuni che imperversano nel campo delle demenze, cominciando dalla “demenza inesistente, la demenza senile”. Da neurologo dei vecchi mi capita di essere in contrasto con qualche mio collega che potrei definire eufemisticamente sbrigativo e, all’opposto, di condividere con lei e con altre figure professionali “non mediche” modi di vedere che considero fondamentali per potersi occupare nella maniera più competente ed efficace di Persone vulnerabili.

Qualche battaglia condivisa, in breve: le demenze – al plurale: sono stufo di sentir parlare della sola demenza di Alzheimer! E, per favore, non chiamatela “morbo”. Questo vale anche per la malattia di Parkinson! – vanno studiate e conosciute in maniera approfondita da chi lavora in questo campo; i loro punti nodali devono essere comunicati in maniera corretta ai familiari (e alle Persone malate quando è ritenuto possibile); le strategie non farmacologiche rappresentano la priorità per affrontare la maggior parte dei disturbi comportamentali; i farmaci raffigurano al momento solamente la ruota di scorta e vanno adoperati con scienza e coscienza, ovvero in maniera appropriata, che si tratti di sostanze per la “parte cognitiva”, i vari Donepezil, Rivastigmina, Memantina (a cui – bisogna dirlo! – solo meno di un terzo dei pazienti “risponde” in qualche modo positivamente) o di quelli per la componente comportamentale drasticamente disturbante; il tutto va fatto tenendo conto della peculiarità di “quella” Persona con demenza e di “quei” familiari, quasi sempre vittime e risorsa e solo in piccola parte, per fortuna, dannazione.

Scrive Annapaola: “C’è bisogno di domandare, una, dieci, cento, mille volte la stessa cosa, ad una persona autorevole, affidabile e competente”. C’è bisogno di anamnesi, di narrazione, di pazienza, di ascolto, di perseveranza: é il motivo per cui amo il personaggio del tenente Colombo e il suo modo di agire!

C’è bisogno, da parte di chi ”sa”, di tempo da dedicare a queste Persone, i malati e i familiari, agli insostituibili professionisti “non medici” che popolano questa società e sanità della fretta e un territorio, quello abitato dalle demenze. Servono tempo e magari dei brevi scritti formativi già predisposti da indirizzare ai medici per la loro auspicabile lettura e per una indispensabile collaborazione.

Complessità. L’autrice accenna alla demenza a corpi di Lewy (DLB) partendo dal racconto della moglie dell’attore Robin Williams pubblicato su un’importante rivista internazionale di neurologia (Schneider Williams S. The terrorist inside my husband’s brain. Neurology 2016;87:1308-11). Accanto ai sintomi descritti in questo testo da Annapaola bisogna aggiungere – pensate! – la perdita dell’odorato (anosmia) e la stitichezza! Cosa vuol dire? Che in questo tipo di demenza sono compromessi anche pezzi del sistema nervoso autonomo, vegetativo, sensoriale che non hanno nulla a vedere con il luogo comune della perdita di memoria! La DLB può manifestarsi, appunto, con la stitichezza attraverso la degenerazione di apparati neuronali intestinali e con la perdita dell’odorato per compromissione di specifiche aree a livello cerebrale, ma può esordire con allucinazioni complesse, con “svenimenti” (sincopi) legati all’ipotensione ortostatica (la pressione arteriosa che si abbassa drasticamente quando da disteso o da seduto ci si mette in piedi), a dimostrazione che la complessità è la regola sin dall’inizio: sul mio sito www.ferdinandoschiavo.it sono presenti quattro racconti emblematici ed istruttivi, tra cui quello di Robin Williams.

Ancora sulla complessità. Quest’anno ho voluto battezzarlo come Modello Complesso Sfottuto di Ferdinando Schiavo, a venti anni esatti dalle critiche ricevute ad un convegno (“Ma lei, Schiavo, vede complicato quello che non è”): è composto da quattro campi, immaginate quattro cerchi, uno cognitivo, uno comportamentale, uno motorio (quando c’è) e infine uno vegetativo-sensoriale, quel comparto automatico, sotterraneo, di cui ho scritto prima e su cui non possiamo esercitare la nostra volontà. In tutte le Persone con qualsiasi tipo di demenza, e non solo quindi nella complicata DLB, sono presenti anomalie della scelta dei cibi (“mia mamma ha cominciato a ingurgitare dolci, lei che non li amava per nulla”), della fame e della sete, dimagrimento, turbe complicatissime dell’architettura del sonno, ipotensione ortostatica, sintomi che possono inaugurare un quadro di demenza e a volte precedere di qualche mese e persino anni le manifestazioni meglio conosciute.

“Se ci penso bene, mia madre ha cominciato a dimagrire prima di mostrare i sintomi che ci hanno orientato successivamente verso una demenza. Esami a posto, non c’era nessuna neoplasia, nessuna strana malattia…”.

“Mio marito da un po’ di anni di notte “agiva i propri incubi” e si difendeva picchiando all’impazzata, cioè me che gli dormivo accanto. Solamente cinque anni dopo sono comparse le allucinazioni…”. Si chiamano RBD, alterazioni comportamentali nella fase REM del sonno e rappresentano un marker precoce di una possibile demenza a corpi di Lewy o di una malattia di Parkinson che può facilmente evolvere in demenza.

Nella vicenda che ha visto protagonista Robin Williams, dopo la stitichezza e l’anosmia, l’ansia, l’insonnia e la depressione, sono comparsi segni della malattia di Parkinson: quella diagnosi aveva convinto parzialmente l’attore che si era lamentato pochi mesi dopo – inascoltato dai medici – di avvertire dei problemi cognitivi, di “avere forse l’Alzheimer”. L’autopsia gli ha dato in parte ragione: ha rivelato un cervello distrutto dai corpi di Lewy. Un parkinsonismo (lentezza dei movimenti spontanei e volontari, non sempre è presente il tremore) può rappresentare, quindi, il sintomo di esordio di una DLB, ma spesso inquina i quadri clinici delle demenze fronto-temporali e di quella vascolare e persino il percorso già travagliato della demenza di Alzheimer, per restare tra i quadri clinici più frequenti.

Si peggiora sotto il profilo motorio anche attraverso numerosi farmaci, dal “famigerato Serenase-Haldol” al Plasil, al Levopraid, al Mutabon ansiolitico (dal nome sembrerebbe un tenero ansiolitico, no?) e a decine di altre Mine Vaganti che colpiscono, in questo caso, il neurotrasmettitore dopamina.

Esistono poi altre Mine Vaganti che si scontrano con il neurotrasmettitore acetilcolina: Buscopan vi dice qualcosa? Ha altre circa 600 molecole a fargli compagnia e a dare fastidio alla memoria, e non solo!

Infine, altri esordi nel campo comportamentale, un po’ misteriosi e sconcertanti. “Non capivo bene perché mio padre, una vita da entusiasta, fosse diventato depresso, e come mai gli antidepressivi lo facessero peggiorare. Poi il neurologo mi ha spiegato che era apatico e non depresso – ho riflettuto, aveva pienamente ragione! – e che purtroppo certi antidepressivi fanno peggiorare l’apatia. Ha aggiunto che c’erano anche dei problemi cognitivi “organizzativi” e di attenzione, più che di memoria; insomma, c’era una demenza in fase iniziale…”.

Ogni storia raccontata da Annapaola per me è stata un’opportunità per continuare ad imparare e riflettere, qualche volta per commuovermi. Corredata da un utilissimo “Memory Box, cose da non dimenticare”, sigilla in un breve spazio e con singolare intelligenza i contenuti strategici. Mi soffermo su tutte, molto brevemente su alcune (e non significa che siano meno interessanti e prive di spunti di riflessione).

Nella prima, Vincenzo, si discute di TV sempre accesa e del fatto che non sempre gli attuali programmi interessino chi è nato 80 anni fa. Ognuno appartiene alla sua epoca! Dobbiamo tenerne conto. E c’è pure una sorpresa: “me lo ritrovai lì, seduto di fronte ad un vecchio pianoforte a coda”.

La seconda, Anna, ha splendidi risvolti umani e rappresenta anche la circostanza utile per parlare dell’approccio Gentlecare® di Moyra Jones “L’adattamento all’ambiente non guarisce la demenza, ma finché non sia stata trovata la cura medica, la creazione di ambienti familiari può fare molto”. Vi é contenuta anche la storia di Luigi, che, spostato di stanza, faceva la pipì dove capitava, “in qualcosa che assomigliasse ad un wc. Ed il portaombrelli chiaro faceva proprio al caso suo”. Un chiaro esempio di ambiente non protesico.

Si accenna anche all’ospedale, realmente inadatto a prendersi cura delle Persone con deterioramento cognitivo. In FVG in circa trenta anni ho visto due sole lettere di dimissione che contenevano la parola DELIRIUM, pur trattandosi di quadri clinici seri e a volte ad andamento severo o mortale, caratterizzati (a voler essere brevi) da uno “stato confusionale”, frequentissimi nel mondo occidentale: le Persone con DELIRIUM rappresentano almeno il 20% dei ricoverati di ogni ospedale!

Con Ninetta, una piccola grande donna, si entra in “politica” in quanto è una vera antifascista che vive le paure del passato come minacce ancora attuali (non avrebbe tutti i torti!). Questa storia dà modo all’autrice di esporre l’approccio Validation® di Naomi Feil:  “il suo contatto continuo con quegli anziani intrappolati in un mondo parallelo, apparentemente distante ed incomprensibile, le dà l’opportunità di capire una semplice ma sconvolgente verità… A nulla serve trattenerli nella realtà, così come la concepiamo, perché non hanno più gli strumenti per analizzarla e comprenderla e ne rimangono semplicemente sgomenti, bisogna tentare di entrare noi nel loro mondo…”.

Nella narrazione si accenna utilmente alla “sindrome del tramonto”, alle fluttuazioni sia cognitive che comportamentali, alle Persone che sembrano spente e invece “capiscono”, tutti elementi su cui devono essere molto efficienti le nostre capacità intuitive: serviranno a informare i familiari e chi lavora insieme a noi, sono doti necessarie per mettere in atto strategie adatte a compensare aggressività e scatti d’ira, non dimenticando da parte nostra pudore, discrezione e rispetto.

In Manuela e il suo “Quando andiamo a casa?”, domanda venata di tenera nostalgia che sembra il motivo conduttore di molte storie ordinarie di demenza, oltre ad essere il titolo del bel libro di Michele Farina, le parole hanno un peso e l’approccio capacitante viene esposto con i semi dell’esperienza sul campo.

C’è poi Roberta e la terapia della bambola, l’ennesima occasione per insistere sulle strategie non farmacologiche, a costo di dover “lottare” contro i familiari, come bene ci racconta Annapaola. E’ il momento di tornare a ricordare il collega Ivo Cilesi, il gigante buono scomparso tra i primi a causa del coronavirus.

Il mio omonimo, Ferdinando – Maresciallo, il suo caffè! – ci conduce per mano a un aspetto di non poco conto: l’assenza di coscienza di malattia impedisce l’esecuzione di esami e in vario modo intralcia la gestione di queste Persone. Annapaola approfitta del contesto per citare uno splendido sobillatore (amo certi eretici), Tom Kitwood: “la cura della Persona malata di demenza deve essere necessariamente centrata sulla Persona stessa, con quella personalità, quella storia peculiare, quei problemi e acciacchi fisici, quegli specifici familiari e così via”.

Finalmente si parla di Persona e di quelli che mi piace chiamare, ricordandovi che il neurologo è un internista e non va confuso con altre figure professionali, “i contorni”, ovvero lo stato di salute generale, fondamentale per una visione globale che accomuna cervello, mente e corpo. A tale proposito, la storia di Ferdinando ne contiene un’altra, di malasanità: quella di Andrea, vivace vecchietto diventato ad un certo punto un uomo spento, “che nessuno visitava” a parte finalmente! un’accorta geriatra (la “gente” e molti medici non capiscono l’utilità di questa preziosa figura professionale!) veloce nel diagnosticare uno scompenso cardiaco e farlo tornare a vivere dignitosamente la sua vita (racconto un caso analogo sul mio sito in Avviso Importante: un anziano scambiato per “ansioso”).

Cercare i dettagli, sperimentare strategie nuove, seguire il proprio intuito personale al momento, devono far parte del bagaglio di chi si occupa delle Persone con la mente lontana.

L’ultima vicenda narrata in questo libro esordisce con la godibile storiella dei porcospini di Arthur Schopenhauer che vi invito a leggere insieme a tutto il resto, fino e oltre l’abbraccio commosso tra Annapaola e la moglie di Lionello.

Anche se sta aumentando significativamente il livello di conoscenze sulle demenze da parte dei medici e degli altri operatori sanitari, restano ancora sacche di impreparazione, di scarso interesse, di ridotto impegno. Lo scrive Marco Trabucchi in Fondazioneleonardo.it nella news del 25/02/2016.

Ne so qualcosa, ho “inventato” (ma non sono tanto sicuro che sia solamente una mia invenzione) un personaggio per un prossimo mio libro, un senza passione, un destinato dal primario all’ambulatorio Disturbi Cognitivi suo malgrado o per propria scelta irresponsabile, un medico che lavorerà con scarso impegno e carente sensibilità, limitandosi allo stretto necessario. L’ho chiamato dottor Simplicio Malavoglia, neurologo di sfiducia. Non ama le TNF, le Terapie Non Farmacologiche. Forse non conosce le strategie senza farmaci, e comunque non le applica.

Le TNF, lo ribadisco, sono la priorità rispetto al metodo pistolero di Simplicio Malavoglia: il ricorso al “calmante” nell’ottica errata e perversa che “Persona con demenza aggressiva o agitata + Psicofarmaco” ottiene sempre come risultato “Persona con demenza calma, orientata e disponibile”.

E’ invece necessario, indispensabile, stabilire una relazione, applicare elementari norme di buona educazione, quella umana e realmente empatica, non certamente l’affettazione distante dal cuore, il banale galateo. Scrive Annapaola: “chiedere il permesso quando entriamo nel loro mondo”. Sono semplici, essenziali e umane regole oltre che metodo procedurale buono a tutte le età, persino per il suo bambino!

Alcune parole sembrano oggi in via di estinzione dal nostro linguaggio e in modo specifico dai bordi etici del nostro vocabolario: Rispetto, Responsabilità, Riservatezza, Ascolto, Pazienza, Silenzio, Umiltà intelligente, Dignità, Pudore, Coerenza, Riflessione, Sacrificio, Autocritica, Empatia, Doveri (ci ricordiamo solamente dei Diritti), Lentezza, Eleganza, Sobrietà, il fascino discreto della Gentilezza. Bisogna ristabilirne l’uso e applicarne i sentimenti ad esse legati poiché sono indispensabili nell’impegno del prendersi cura della fragilità inerme e della vulnerabilità altrimenti senza riparo.

Come accade nella Persona non malata, anche in quella con demenza troppo spesso la sofferenza è Storia non raccontata: dare parole al passato e curarlo è il nostro difficile compito, mettendo a fuoco l’invisibile.

De Gregori canterebbe “la Storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano…”.

Ferdinando Schiavo

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Presentazione del libro “Il Corpo nella Demenza”

Pubblicato su 21 Novembre 2021 di Ferdinando Schiavo

“Il Corpo nella Demenza”

La Terapia Espressivo Corporea Integrata nella malattia di Alzheimer e nelle altre demenze.

Elena Sodano. Maggioli Editore.

Ecco un libro che si prende cura di persone, piuttosto che semplicemente accontentarsi di curarle, perché curare può essere un arido esercizio costruito con formule e algoritmi da seguire secondo linee guida, attraverso esami e farmaci, strategie che non sempre rassicurano se non sono collegate ad umano ascolto ed empatia, a buona informazione e corretta comunicazione, quando serve persino al contatto col corpo di chi è vittima di qualsiasi sintomo o malattia o semplice paura.

Ecco, un concetto apparentemente banale o insignificante in questa epoca tecnologica, un concetto che ha a che fare con il lavoro appassionato di Elena Sodano e con il suo libro: il semplice toccare il corpo di chi si rivolge a noi operatori della salute, medici o meno, può rappresentare già un atto terapeutico fruttuoso perché il risultato che nasce da un buon rapporto tra operatore e paziente, è dimostrato oramai da decenni, è frutto dell’effetto placebo attraverso una complessa stimolazione a buon fine di aree cerebrali, una rivoluzione di mediatori chimici e di ormoni finalizzate al raggiungimento del possibile benessere. “Oggi non vi sono dubbi, né per la scienza né per la filosofia, che il problema mente-corpo si identifichi con il problema mente-cervello… una delle discipline moderne che studia l’unità mente-cervello-corpo è la psico-neuro-endocrino-immunologia…” scrive un esperto di fama mondiale, Fabrizio Benedetti su L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo (Carocci editore).

Toccare un corpo, accarezzarlo, abbracciarlo provocano, tra l’altro, un aumento di ossitocina, la sostanza chimica principale della connessione sociale, che è un ormone che raggiunge attraverso il sangue e collega vari organi, un ormone della calma e della tranquillità, dell’armonia sociale, dell’intimità. Ma è anche un neurotrasmettitore del nostro sistema nervoso autonomo, quell’apparato complicato e diffuso nel nostro organismo che “non comandiamo”, che ci fa battere il cuore, aumentare la pressione, arrossire, sudare, come raccontano John Cacioppo e William Patrick in Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro (Il Saggiatore) gettando le basi per lavori scientifici successivi che hanno confermato in che modo la solitudine sia addirittura uno dei nuovi fattori di rischio, assieme alla sedentarietà, di svariate condizioni patologiche, demenze comprese.

Toccare un corpo, palpare l’addome o qualsiasi sua parte dolorante o meno può essere ovviamente anche una determinante valida per una diagnosi: e tuttavia, oggi sembra una modalità impiegata progressivamente sempre meno dai miei colleghi, a beneficio di esami che dovrebbero darci una certezza maggiore (e una copertura difensiva…) ma che allontanano emotivamente i due protagonisti, il medico e il paziente che si rivolge a lui.

Una persona che oggi ha 80 anni o più, basta riflettere, è passato da una condizione in cui il suo medico «sapeva un po’ di tutto» ad un’altra caratterizzata da una superspecializzazione nella quale, peraltro, le specializzazioni non solo non comunicano tra loro, ma spesso frammentano il corpo in una visione che parla agli organi e quasi mai all’organismo intero.

Non solo! La frammentazione delle competenze sta comportando una diminuzione delle responsabilità, che di conseguenza si dissolvono all’interno del gruppo di medici coinvolti nella cura delle diverse patologie di una anziano: emerge frequentemente una difficoltà nell’indicare quale sia il medico a cui spetti l’onere di tirare le fila della miriade di accertamenti eseguiti e delle cure, chi sia il direttore d’orchestra.

Nello scenario attuale dominato dal progressivo invecchiamento della popolazione mondiale e italiana, hanno una posizione sempre più dominante i quadri neurodegenerativi che vedono protagonisti mente e movimento in crisi: le demenze, la malattia di Parkinson e i poco conosciuti parkinsonismi, malattie simili alla malattia di Parkinson ma che non rispondono sostanzialmente alle terapie dopaminergiche consuete, ed altre patologie meno frequenti.

E così, i capricci della mente e quelli del movimento possono apparire associati in malattie complesse e severe come la demenza a corpi di Lewy, la demenza fronto-temporale associata a parkinsonismo (e a volte anche a SLA in una summa di tremende patologie neurodegenerative!), la stessa malattia di Parkinson che evolve in demenza, oppure i parkinsonismi da farmaci che inquinano la vita di tante persone anziane e rimangono tante volte non riconosciuti e risolti.

Come accennato, persone con malattia di Parkinson o parkinsonismi vari possono evolvere verso una demenza. C’è un altro aspetto inquietante: alcuni parkinsonismi sono curati proprio con i dopaminergici Sinemet, Madopar, Sirio, Jumex e altri ancora, come se fossero la “vera” malattia di Parkinson anche se, appunto, non solo non traggono alcun miglioramento sotto il profilo motorio dai farmaci ma possono subirne un ulteriore carico di eventi avversi (allucinazioni, sincopi, ecc.).

Dobbiamo ricercare le storie personali, il CHI oltre al CHE COSA, ovvero la malattia, guardando alla persona reale in relazione alla malattia e non solo alla malattia, aveva scritto anni fa il grande collega Oliver Sacks

Gli operatori sociali e sanitari, tutti, dovrebbero allargare lo sguardo e tenere nel debito conto che ogni individuo malato ha una propria singolare storia e così la sua famiglia, e che le rispettive dinamiche personali e familiari, se non sono arricchite dall’amore, se non sono sane ed equilibrate, possono contribuire a mantenere alto il tasso di complessità, che per il resto è legato alla natura di ogni tipo di malattia neurodegenerativa.

Ancora di più nel territorio complesso delle demenze, chi si prende cura di una persona malata e della sua famiglia dovrebbe entrare in questa storia, unica e originale, con profondo rispetto e in punta di piedi, con il compito di comunicare con onestà e coraggio, senza omissione di diagnosi e cure, la sconfitta della scienza di fronte a queste patologie progressive. Dovrebbe contribuire a insegnare ai familiari a elaborare il lutto e a farsi aiutare cercando di metterli in grado di interpretare ciò che la persona malata vuole comunicare. “senza etichette sommarie fatte di pregiudizi e senza obbligatorie scorciatoie verso una terapia farmacologica non sempre proponibile e non sempre seguita da miglioramenti” scrive Elena Sodano.

Oggi non abbiamo terapie efficaci che impediscano la progressione (anatomica e funzionale, in termini di perdita di neuroni e di connessioni) di tante malattie della mente e del movimento: gli unici risultati visibili si ottengono dagli anni settanta nel periodo iniziale della “luna di miele farmacologica” dei pazienti con malattia di Parkinson. Ma questi dopaminergici e gli altri farmaci per le demenze curano solo i sintomi e non la causa che porta a morte quei neuroni.

Almeno fino a oggi. Siamo in trepida attesa dei risultati di numerosi lavori in corso su varie molecole forse attive sulle ragioni patologiche per cui certi neuroni soffrono e poi muoiono.

Possiamo prenderci cura dei nostri fragili ponendo attenzione ai molti aspetti di contorno, sociali e sanitari: far fronte all’apatia e all’abbandono, curare bene un diabete, il peso corporeo, l’alimentazione, l’attività fisica, eliminare farmaci inutili o dannosi.

La realtà delle demenze può divenire ancora più complessa perché l’intervento di vari farmaci sulle anomalie comportamentali può renderla più intricata in quanto possono interferire nei processi cognitivi e nello stesso comportamento attraverso reazioni avverse ed effetti paradossi (ovvero effetti opposti a quelli attesi), come può accadere con gli ansiolitici, quasi sempre benzodiazepine: Valium, Tavor, Minias, EN e numerosi altri nomi.

Sono tanti nel comodino dell’anziano fragile, cronico o malato, i farmaci provvisti di un’attività anticolinergica, ovvero opposta al buon funzionamento dell’acetilcolina, uno dei più importanti neuromediatori del cervello: Buscopan e, purtroppo, tante altre sostanze, possono procurare una riduzione delle capacità cognitive e, in concorso con altre sostanze e con numerose condizioni (disidratazione, febbre, contenzione fisica, ecc.), portare a temibili episodi confusionali (Delirium) dagli esiti non sempre benevoli per la salute di un anziano.

Altre medicine provocano una ricaduta negativa a livello motorio, ovvero sono in grado di provocare parkinsonismo, distonie, acatisia. Quest’ultima è sfortunatamente poco conosciuta: consiste in una incapacità a stare fermi o a stare zitti, per cui può essere scambiata per “ansia” e pertanto destinata a subire un aggravamento paradossale se è affrontata aumentando la dose del farmaco incriminato! I colpevoli si annidano quasi sempre tra gli antipsicotici tradizionali che vengono adoperati per combattere l’aggressività, l’agitazione, le psicosi, le allucinazioni. Uno per tutti di un elenco nutrito: l’aloperidolo (Serenase e Haldol). In questo elenco di molecole che stavolta lavorano “contro” il neuromediatori dopamina sono presenti nomi noti e per qualcuno insospettabili come il Plasil, il Difmetré, il Levopraid ed altri ancora.

Reazioni avverse o paradosse possono avvenire persino con i “nuovi” antipsicotici atipici: quetiapina-Seroquel, olanzapina-Zyprexa, risperidone-Risperdal.

Da anni mi sforzo di far capire che agitato + psicofarmaco non sempre è uguale a paziente calmo e che le strategie non farmacologiche “valgono” 95 mentre quelle farmacologiche solo il restante 5 per cento. Detto da un medico ha il profumo dell’eresia!

Mi rendo conto che certamente, per coloro che non conoscono a fondo le tematiche legate al mondo delle demenze, sembra impossibile non poter comunicare con la persona malata. Questa incomprensione li porta spessissimo a compiere tentativi di riportarla alla nostra realtà di individui sani. Sbagliando. Non è semplice riuscire ad accettare la progressiva in-utilità delle parole (si badi bene: non del parlare!), del “volere educare”, del “pretendere”, del nostro arrabbiarci, del pensare che sia fruttuoso sgridare e punire…

Servono operatori formati con amore, innamorati del compito di formare a loro volta familiari disperati e senza forze.

In questo sfondo di complessità e a volte di colpevole sottovalutazione, Elena Sodano lavora da anni per costruire ponti, non certo a scavare fossati tra “noi e loro”, i medici e i non-medici, ponti di comprensione e di comunicazione ancora possibile in una rete composta da onesti artigiani della salute. Si è impegnata sull’armonia spontanea ed emozionale affinché, come scrive, la terapia TECI, che ha elaborato nel tempo e sperimentata per anni, possa funzionare su “questi corpi lenti, corpi persi, corpi vuoti, corpi silenziosi che nel momento della diagnosi non vengono più tenuti in considerazione, come se diventassero evanescenti perché la malattia all’improvviso stacca ogni contatto fisico, emozionale, affettivo tenendo in considerazione solo lo studio e la somministrazione farmacologica di molecole che servono a sedare le condotte corporee imposte da un cervello che piano piano si deteriora”.

Elena combatte con rigore e compassione contro “il non fare nulla” che consegna i nostri anziani fragili o malati alla noia mortale, alla insignificanza, all’eutanasia silenziosa. Pur nella sua originalità di intervento professionale per la quale dovrei etichettarla come una professionista che “canta fuori dal coro”, in realtà Elena canta da sempre nel nostro coro di operatori della salute che non si arrendono alla comodità dell’ageismo (tanto è vecchio…), del nichilismo (non c’è niente da fare…), del fatalismo (è scritto così, è destino…).

Il suo stile di lavoro e le tecniche sperimentate le permettono attraverso la musica di educare le persone vulnerabili alla scansione del tempo, persino del respiro comune e dell’affiatamento, del rispetto dell’armonia, promuovendo il “risveglio della memoria corporea… un secondo linguaggio a disposizione del terapeuta per capire attraverso il corpo quello che il paziente non riesce più ad esprimere con il linguaggio”.

La musica diviene mezzo pacifico di contenimento naturale “grazie alla quale anche un disturbo del comportamento può trasformarsi in una danza” poiché le principali malattie neurodegenerative non intaccano, se non nelle fasi terminali del processo, quelle aree del cervello dove sono custodite le emozioni, la memoria antica che ci lega alla voce della mamma, al cullare della ninna nanna, alle dolci nenie che ci facevano addormentare, a certi profumi, infine al ricordo di quella casa natia dove certamente si è stati amati come forse mai più dopo. Si, proprio quella casa che nelle forme avanzate di demenza viene invocata da milioni di persone come una straziante litania che nasce da un desiderio impossibile di ritorno.

Occupandosi “a modo suo” delle persone fragili e malate, Elena e lo splendido gruppo di persone che collaborano da tempo con lei toccano finalmente il loro corpo!

E permettono alle persone di giocare.

Niente è più serio del gioco. Nei cuccioli di tutte le specie il gioco è uno strumento di conoscenza del mondo, il mezzo attraverso il quale si apprendono i propri limiti, si impara a dosare le forze e a relazionarsi con l’altro e con l’ambiente. Il gioco, come il gesto artistico, è sempre un atto di libertà, che non si comanda e non si può imporre, è disinteressato.

E giocare, per citare Umberto Eco, è “uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano”.

Ferdinando Schiavo

Pubblicato in Presentazioni, Varie |

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  • 6 marzo 2025 – Buttrio – Alimentiamoci di benessere
  • 28 novembre 2024 – Bologna – Stimolazione cognitiva e fisica nella cura della demenza: sinergie tra sanità e sociale
  • 26 ottobre 2024 – Cividale del Friuli – Anziani, prevenzione alla fragilità
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